
Sir John Martin Thomas è il rappresentanto della Chiesa siro-malankarese, che segue il rito siriaco occidentale
Tre Ave Maria, e poi via. Comincia così la giornata di sir John Martin Thomas, uomo d’affari di origine indiana, i cui avi sono stati i primi cattolici dell’India, convertiti direttamente dall’apostolo Tommaso, che oggi è considerato il santo patrono del Paese asiatico. Un’eredità importante, che ha segnato la storia della famiglia di John Martin, tanto da determinarne il cognome, Thomas. Oggi questa famiglia allargata, diffusa in tutto il nord dell’India, è un ottimo esempio di convivenza interreligiosa tra la parte cattolica (i Thomas) e quella induista (i Rathore). Ai battesimi e ai matrimoni partecipano tutti, ognuno seguendo la propria ritualità. Come riportano gli Atti apocrifi di Tommaso,l’apostolo era stato venduto nel 50 d.C. come schiavo alla mia famiglia (regno indo-parto) che regnava su un territorio che si espandeva dal nord-ovest dell’India agli attuali Afghanistan e Pakistan», racconta sir John Martin. «Il re Gondofares I, sapendo che Tommaso era un bravo carpentiere, gli affidò del denaro affinché costruisse il palazzo reale, ma questi distribuiva il denaro ai poveri. Quando il re gli chiese spiegazioni, Tommaso rispose: “Ti ho costruito il palazzo nel regno dei cieli”». Seguendo il sovrano, molte famiglie aristocratiche decisero di convertirsi, e il cattolicesimo cominciò a diffondersi. Successivamente Tommaso si diresse a sud, predicò in quello che è l’attuale Kerala (allora chiamato Malankara), nella costa del Malabar e nella regione di Madras, dove oggi sorge la cattedrale a lui dedicata, meta di pellegrinaggi.
FRA NEW DELHI E MILANO
Sir John Martin Thomas si divide fra New Delhi, la capitale indiana dove esercita buona parte dei suoi affari, e Milano, dove si trovano la moglie Barbara e la figlia Eugenia Maria Manorma. Per la sua devozione e il suo impegno nel 2018 il vescovo della diocesi di Saint John Chrysostom di Gurgaon (città del circondario di Delhi), monsignor Jacob Barnabas, gli ha conferito il titolo di plenipotenziario della Chiesa cattolica siro-malankarese. Significa che è autorizzato a rappresentare la diocesi a livello internazionale, ma anche a raccogliere fondi per attività caritatevoli ed educative. «Le scuole più importanti in India sono gestite dai cattolici e dagli anglicani, i quali si sono concentrati sull’educare più che sul convertire», spiega. «Quest’ottima intuizione ha poi portato con sé anche delle conversioni, ma consapevoli». Un metodo poco praticato dalle ultime Chiese che si vanno “contendendo” la popolazione. «La mia attività di plenipotenziario consiste anche nel cercare di spiegare ai cattolici come comportarsi con gli induisti, che rappresentano l’80% della popolazione. Il rapporto è delicato perché in India, a partire dagli anni ’90, sono arrivate dall’America quelle che io chiamo le Chiese business oriented, Chiese evangeliche poco interessate alle questioni di fede, molto ai soldi. Distribuiscono materiale informativo contro gli induisti e le loro divinità. Ovvio che la gente reagisca. Fino ad atti estremi, come fu la strage dell’Orissa nel 2008».
IN COMUNIONE COL PAPA

La custodia di un’antica Bibbia
La Chiesa malankarese nel corso dei secoli ha subito una serie di divisioni; quella siro-malankarese, di cui è rappresentante John, è di rito siriaco occidentale, ed è in piena comunione con papa Francesco. «Mi piace molto questo Papa per la sua semplicità, perché parla ai poveri, mi ricorda Tommaso». A proposito di poveri, l’India è da sempre conosciuta come il Paese dei contrasti, dove grattacieli lussuosi convivono con le tende dei poveris- simi. «Perché guardate sempre alla povertà? Guardate piuttosto al 25% della popolazione indiana che è nel benessere. Il 25% di un miliardo e mezzo equivale praticamente all’intera popolazione europea. E poi per gli induisti la povertà è una condizione che deriva dall’aver fatto del male nelle vite precedenti». In questa cultura millenaria si innesta anche il sistema delle caste, abolito dalla Costituzione, ma di fatto ben presente nella società. «Per noi è qualcosa di naturale, di consolidato nei secoli. Se è possibile un’ascesa sul lavoro, rimane invece vietata la possibilità di sposarsi con una persona di casta diversa». Ma non perpetua le disuguaglianze? «Certo. Infatti io dico che noi indiani siamo il popolo più razzista del mondo».
© 2020 Romina Gobbo
pubblicato su Credere – 21 maggio 2020 – pagg. 26 e 27