Un cappuccio sulla testa, le mani legate dietro la schiena, un luogo sconosciuto. È così che siamo diventati desaparecidos, cioè scomparsi dalla faccia della terra.
Inizia così la seconda parte della vita di Emilio Marchi, 77 anni, nato a Buenos Aires, in Argentina, figlio di un italiano emigrato in cerca di fortuna, e di un’argentina. Lo raggiungo al telefono a Posadas, capoluogo della provincia di Misiones, dove vive. La prima parte, quella dell’infanzia, era stata segnata dalla morte prematura di papà, e dalle fatiche di mamma nel far quadrare il bilancio da sola, con cinque figli. A 16 anni Emilio comincia a lavorare e a 18 è già un imprenditore nel settore dell’elettromeccanica. Nel 1976 con un colpo di Stato, il generale Jorge Videla spodesta Isabelita Peròn. Da presidente, sospende la Costituzione, scioglie il parlamento e i partiti, e mette il Governo nelle mani della Giunta militare, perseguitando chiunque non fosse allineato. Si sparge la voce che Marchi nasconda in azienda un oppositore del regime. Scatta la retata. Marchi e i suoi collaboratori vengono inghiottiti in un buco nero. La parola d’ordine di queste azioni è segretezza; i sequestri avvengono di notte, senza testimoni, le autorità non avvisano i familiari degli arrestati. Anche la famiglia Marchi per molto tempo non riuscirà ad avere notizie. Emilio resta un mese in un campo di concentramento per poi essere trasferito nella prigione di Devoto nel quartiere Chacarita di Buenos Aires. «Eravamo terrorizzati – racconta -, perché la polizia penitenziaria torturava con “grande creatività”. A qualcuno toccavano le scosse elettriche, a qualcun altro il sacchetto di plastica sulla testa che provocava il soffocamento. Alcuni non sopportavano, morivano».
E lei come ha resistito? «Per la maggior parte della gente è incomprensibile come una persona possa sopravvivere in tali situazioni. Avviene una reazione istintiva. Credo che gli esseri umani tengano una riserva di forza che emerge quando tutto sembra perduto. Non sono credente nel senso tradizionale del termine. Non potevo affidarmi ad un Dio di cui sento la necessità, ma della cui esistenza non sono sicuro». Marchi – considerato prigioniero politico – è rinchiuso nel quinto braccio, quello delle persone religiose. «Mi misero con 17 sacerdoti e 5 seminaristi. Non potevamo scrivere, né leggere, e la Messa era vietata. Poiché sono sempre stato curioso, li interrogavo sulla loro fede, volevo sapere in quale momento dell’eucaristia si sentivano più in comunione con Dio». Non prova odio per i suoi aguzzini Emilio, ma si percepisce che fatica a rivivere quei momenti ricordare fa male. Quel carcere era molto attenzionato dalle associazioni umanitarie, in particolare da Caritas, Croce Rossa Internazionale e Amnesty International. «Facevano pressione perché fossimo trattati meglio. Grazie a loro, riuscimmo ad ottenere un’ora d’aria nel cortile del carcere. La presenza degli organismi internazionali metteva il regime davanti agli occhi del mondo. E siccome nei miei confronti una vera accusa non fu mai formulata, mi fu proposta la libertà a patto che avessi lasciato il Paese».
Emilio può contare su parenti italiani, così accetta di andare in esilio. Dopo quasi due anni i cancelli del carcere si aprono. Comincia la sua terza vita, la rinascita. Arrivato in Italia il 2 luglio 1978, viene accolto da zia Maria, sorella di papà. «Mi aspettava all’aeroporto di Venezia con tutta la famiglia. Fu un momento di grande commozione. Passavo da un luogo di estrema crudeltà, ad uno di grande calore umano. Il primo mese lo trascorremmo sull’altopiano di Asiago (Vicenza). Ero provato fisicamente, non parlavo una parola di italiano, ed ero ancora sotto shock. L’aria di montagna mi fece bene, fu terapeutica». Così come fu terapeutica la chiacchierata con il teologo Vìctor Manuel Fernández, all’epoca a Roma per la specializzazione. «Volle incontrarmi. Era un argentino, conosceva a fondo la problematica dell’oppressione nel suo Paese, ne parlammo a lungo».
Finalmente Emilio arriva in quella che sarà la sua casa per sette anni, a Ponte di Brenta, in provincia di Padova. Decide di reagire alle ferite del corpo e dell’anima, dedicandosi agli altri. Per mantenersi, dipinge, ma la maggior parte del suo tempo la trascorre tra gli emarginati. «Due volte al giorno in bicicletta andavo in stazione a Padova a portare bevande calde ai senza tetto. Sei thermos: latte, tè, e anche grappa. Con l’aiuto di una suora abbiamo trovato uno stanzone, che è diventato luogo di ricovero. Tre dei 33 senza tetto che ospitavamo, sono poi riusciti a cambiare vita».
Nel 1983, con l’elezione democratica di Raúl Alfonsin, finisce il regime militare in Argentina. Emilio torna a casa. Si stabilisce a Posadas, capoluogo della provincia di Misiones, la più povera del Paese, un milione di abitanti, al confine con Paraguay e Brasile. «Fui impressionato dall’enorme numero di bambini di strada. Niente case, solo catapecchie. Bisognava fare qualcosa». Nel 1986 Emilio fonda l’associazione Jardin de los Niños che nel 2001 gli permetterà anche di incontrare l’allora cardinale Jorge Maria Bergoglio. Per supportare Emilio, nel 1987, i suoi amici italiani creano un’associazione con lo stesso nome di quella argentina, nel Veneziano, a Dolo. L’associazione argentina – oggi guidata dall’italiana Ilaria Cappellari – è nata come giardino d’infanzia per accogliere i bambini di strada, ma in trent’anni ha sviluppato vari progetti: la mensa per i bimbi denutriti, un ambulatorio, un panificio comunitario, il centro per anziani indigenti, le scuole, la casa per le ragazze madri, il centro di aggregazione, le cooperative di lavoro. Al posto delle catapecchie ci sono 800 casette con acqua potabile, bagno, energia elettrica. «Quella che era una baraccopoli oggi è un quartiere, umile, ma con tutti i servizi essenziali», spiega il padovano Enrico Bertocco, 47 anni, arrivato nel 2001 a Misiones, dove dirige una cooperativa che si occupa di falegnameria, panetteria ed edilizia. «Maria, la zia che accolse Emilio quando venne in esilio in Italia, era mia nonna. Io ero piccolo, ma con lui è stato subito feeling. Quando è tornato in Argentina, ho pensato che mi sarebbe piaciuto andare ad aiutarlo. Ed eccomi qui».

Centro anziani
Oggi Jardin de los Niños è la più grande Ong della provincia di Misiones, ha cambiato la vita a migliaia di persone e continua a farlo. Dall’Italia, la onlus omonima lavora a tutela delle popolazioni più povere del Sud del mondo. Il fiore all’occhiello di Posadas è la Casa delle Madri Adolescenti “San Francesco” dove, negli anni, sono nati 320 bambini. Tra le prime strutture ad essere costruite, necessita ora di alcuni interventi. Per questo Emilia lancia un appello alla solidarietà in vista del Natale, nella consapevolezza che nella vita si riceve sempre di più di quello che si dà. «Quando uno decide di dedicare la propria vita agli altri, all’inizio forse pensa di star facendo qualcosa di straordinario, ma poi – conclude – si accorge che essere a servizio di chi è nel bisogno è la cosa migliore per cui vale la pena vivere».
© 2020 Romina Gobbo
pubblicato su Avvenire – domenica 20 dicembre 2020 – supplemento Noi Famiglia & Vita – pagg. 34 e 35