«Il nostro patrono è moro?» Suscita curiosità nei ragazzi il corpo di san Zeno, conservato nella cripta dell’omonima basilica di Verona, eretta per custodirne le reliquie. Quel viso scuro fa nascere in loro il desiderio di sapere qualcosa di più del vescovo vissuto nel IV secolo, considerato il fondatore della Chiesa veronese. «Per noi sacerdoti è soprattutto un padre nella fede», afferma don Gianni Ballarini, dal 2009 abate di San Zeno (la basilica dal 1806 appartiene alla diocesi, ma per mille anni è stata abbazia benedettina e quindi il parroco conserva il titolo di abate, ndr). «Le testimonianze che abbiamo del santo», prosegue don Ballarini, «sono di una persona amabile, paziente, molto vicina alla gente, sempre sorridente, tanto che in chiesa c’è una sua statua chiamata “San Zeno che ride”, proprio per il sorriso bonario che l’artista ha impresso sul suo volto. Aveva una parola per tutti, ma senza mai abbassare l’asticella del Vangelo. Nei 93 sermoni che ci ha lasciato, egli chiede alla gente una vita virtuosa. Fu proprio il popolo di Dio ad acclamarlo vescovo nel 362; era già qui da dieci anni come prete, evidentemente era ben voluto. E questa benevolenza continua ancora oggi». Della sua si sa poco: nato in Marocco, vicino a Marrakech, arrivò a Verona forse al seguito del padre, funzionario dell’Impero Romano.

UNA MISSIONE AL CONTRARIO
«Dopo la ricognizione delle reliquie avvenuta nel 2012 a opera degli esperti delle Università di Padova e Bologna, in occasione dei 1.650 anni dall’investitura di Zeno a vescovo di Verona (festeggiati con la peregrinatio dell’urna attraverso la città), possiamo affermare con certezza scientifica che si trattava di un maghrebino. Cinquant’anni dopo l’editto di Costantino, che aveva concesso la libertà di culto in tutto l’Impero e quindi posto fine alle persecuzioni dei cristiani, Zeno era venuto dall’Africa per evangelizzare» (una missione “al contrario” rispetto a quelle attuali) «e dovette confrontarsi con il paganesimo ancora presente nella Pianura padana e confutare le tesi degli ariani», che professavano l’eresia secondo cui Dio è solo il Padre mentre Gesù sarebbe stato creato e non generato. Quindi, «per i veronesi divenne presto il simbolo dell’inclusione e la sua devozione poi si è diffusa anche ben oltre il Veneto, tanto che a lui è dedicata la cattedrale di Pistoia».
L’anno di morte non è certo – tra il 372 e il 380 -, mentre certi sono il giorno e il mese: 12 aprile. «Ma, per motivi di calendario liturgico», spiega don Gianni, «abbiamo spostato la celebrazione al 21 maggio, che è la data in cui nell’807 le sue spoglie furono traslate nella nuova basilica fatta edificare per volere del vescovo Ratoldo e del re d’Italia Pipino, e affidata ai monaci benedettini». Papa Gregorio Magno nei suoi Dialoghi racconta che, nell’anno 589, le acque dell’Adige inondarono la città, ma si fermarono alle porte e alle finestre della primitiva chiesa dove, davanti al corpo del santo, erano radunati molti fedeli. «La tomba era visitata sia da alti prelati che da umili pellegrini. Intraprendevano un cammino di spiritualità che li portava fino a qui».

MERAVIGLIE DELL’ARTE
Il monastero zenoniano crebbe d’importanza nel tempo. Dopo la costruzione dell’attuale basilica, «i pellegrini arrivavano sulla piazza antistante e restavano incantati davanti alla meravigliosa facciata romanica dove – dice l’abate -, è espressa una delle più belle sintesi di arte e fede. In particolare, in due elementi all’apparenza contradditori ma ricchi di significato. Uno è la “Ruota della Fortuna” (nel senso latino di “destino”), circondata da sei statuette che indicano le alterne vicende della vita: dalla prosperità alla disgrazia. Ma è la Fortuna stessa che dice: “Chi confida in me, è uno sciocco”. Il fatalismo non è il senso della vita. E, allora, qual è? La risposta è impressa ancora sulla pietra, è il Credo cristiano: “Credo in Dio Padre onnipotente, Creatore di tutte le cose…”; è lì il senso. Poi c’è un bel Giudizio universale, che oggi non si vede quasi più, ma al tempo era la Bibbia di chi non sapeva leggere». Molto importante è anche il portale sull’ingresso principale. La porta in legno a due battenti è ricoperta da 73 formelle in bronzo che risalgono al XII secolo, tra le più antiche del loro genere. Il portale, dello stesso XII secolo, è opera del maestro Niccolò, circondato da 18 altorilievi con Storie dell’Antico e nuovo Testamento. All’interno, da non perdere, la Pala di San Zeno di Andrea Montagna.

FRATELLI NEL TEMPO DEL COVID
La pandemia ha inciso fortemente sulla vita comunitaria della basilica che, date le sue dimensioni, per i veronesi è da sempre la chiesa delle grandi celebrazioni. In tempi normali, contiene un migliaio di persone, oggi il numero massimo consentito per le Messe è 280. Azzerata anche tutta l’attività di visita: 500mila turisti all’anno, a cui vanno aggiunti i pullman di pellegrinaggi religiosi, le gite scolastiche, gli esperti d’arte, i tanti che chiedono di celebrare matrimoni, anniversari, funerali… «Per gli abitanti del quartiere, la basilica non è un monumento, è semplicemente la loro chiesa, dove andare a pregare, ad accendere una candela». Perché, nonostante l’imponenza, San Zeno è intrisa di spiritualità. «La gente entra per gustarsi un momento di pace. L’architettura romanica ti dà un senso di essenzialità, ti invita al silenzio, alla ricerca di Dio. La chiesa è su tre livelli. Quando entri, ti trovi di fronte una scala, dieci gradini che scendono. Ti senti peccatore e ti abbassi davanti al Signore».

© 2021 Romina Gobbo pubblicato su Credere - giovedì 15 aprile 2021 - Pagg. 52, 53, 54, 55