«Era Natale 1997. Mi trovavo nel tempio serbo-ortodosso di Trieste, quando vidi una persona di colore. Mi sembrò singolare. Nella mia superbia intellettuale pensai di avvicinarmi per spiegare alla persona in questione che, in quanto musulmana, stava nel luogo sbagliato, non eravamo in moschea. Mi avvicinai e vidi che era una donna. Chiesi che cosa ci faceva in una chiesa serbo-ortodossa. Generalmente noi pensiamo che gli ortodossi provengono dall’Est Europa e sono bianchi. Mi disse che veniva dall’Eritrea e che nel suo Paese molti aderiscono alla confessione eritreo-ortodossa, di tradizione copta. Cominciai a capire e ci facemmo due risate. Ci incontrammo di nuovo qualche mese dopo alla veglia pasquale ortodossa e da allora non ci siamo più lasciati».
Nel 2002 il triestino Stefano Sodaro e l’eritrea Adhanet (Anastasia) Kafil Ghebrezghi convolano a nozze. Liturgia cattolica di rito romano, alla presenza anche di un prete eritreo-ortodosso. «Sposare una ragazza eritrea interpellava la mia vita», spiega Sodaro. Una vita alla continua ricerca di sé e dell’altro perpetrata attraverso la lettura e l’esempio della famiglia di origine. «La svolta avvenne il 18 aprile 1991, quando Trieste visse una tragedia che sconvolse l’intera città. Era una notte rigidissima. Quattro bambini di etnia Tamil, provenienti dallo Sri Lanka, morirono di freddo. I miei genitori ospitarono una delle due madri. La dignità di questa donna, pur nel dolore immenso, mi colpì molto e – stimolato dal fatto che cominciavano ad arrivare i primi barconi – decisi di continuare a conoscere questi mondo altri che l’immigrazione ci apriva».
Seguirono il servizio civile come obiettore di coscienza presso le Acli di Trieste, l’insegnamento dell’italiano agli stranieri, il Concilio Vaticano II come faro, incarnato nella figura di don Tonino Bello, vescovo di Molfetta (Bari). «La sua voce entrava nella nostra casa attraverso la rivista “Nigrizia”, dove teneva una rubrica. I suoi articoli ci colpivano perché utilizzava un linguaggio diverso da quello che eravamo abituati a sentire in parrocchia, più immediato. Venne a Trieste per una veglia. Ne fui folgorato. Così gli chiesi di accogliermi nella sua diocesi per un tempo di riflessione. Mi fu vicino nell’approfondire una prospettiva di vista di tipo monastico, invitandomi però a non abbandonare la concretezza. Bello rimane per me un riferimento fondamentale, così come lo è papa Francesco – che ho avuto il privilegio di incontrare -, e che – con la sua attenzione alla tenerezza, all’immediatezza, alla prossimità – me lo ricorda».
Se è vero che l’identità è un misto di provenienza, famiglia, cultura, tradizioni…, i Sodaro hanno un gran bel da fare a sbrogliare la matassa. «I miei nonni materni provenivano dalla Val di Zoldo (Belluno), portavano con sé il rigore di un certo cattolicesimo di montagna, non discutibile, molto consolidato. Il nonno paterno era calabrese (provincia di Catanzaro), e la nonna campana, della provincia di Caserta. I miei genitori triestini. Mia moglie è eritrea della capitale. Ma mentre lei e i suoi familiari più stretti sono di confessione eritreo-ortodossa, c’è un altro ramo della famiglia che è musulmano». Come ci si destreggia in un mondo così variegato? «Me l’ha spiegato lei: “Serve una grande chiarezza: chi è cristiano non è musulmano, e viceversa. Tutto ciò che ne consegue non è assolutamente problematico”».
Infatti, i figli di Stefano e Adhanet – Sara (14 anni) e Matteo (17 anni) – sono orgogliosi della loro duplice appartenenza – fatta anche di feste liturgiche differenti, a seconda dei vari momenti dell’anno, abiti tradizionali eritrei, contaminazioni gastronomiche e musicali -, e curiosi di approfondire le loro radici. «Tutto questo ha fortificato la loro attenzione verso i temi dell’integrazione, della diversità – riprende Sodaro -. E partecipano delle sofferenze dell’Eritrea, soprattutto in questo periodo che registra una situazione al collasso».
Stefano Sodaro è nato a Trieste il 18 aprile 1968, e si è laureato in Giurisprudenza nel 1989, con una tesi in diritto canonico (ricerca sperimentale sull’ordinazione presbiterale degli uomini sposati nelle Chiese orientali-cattoliche). Bancario di professione, giornalista per passione. Iniziò con il redigere la rubrica “Liturgia del quotidiano” per il settimanale diocesano locale “Vita Nuova”. Conclusa la collaborazione, Sodaro trasferì quell’esperienza sull’online, dando vita al “Giornale di Rodafà”, un domenicale che tra qualche settimana raggiungerà il numero 600. Due anni fa è stata costituita l’associazione culturale “Casa Alta”, che ha sede nella casa del poeta dialettale triestino Virginio Giotti, e che intende mantenere viva l’attenzione sulla Chiesa, sul dialogo ecumenico ed interreligioso, sul rapporto tra fede e vita. «La fede per me corrisponde ad una forma di innamoramento assoluto per la nostra vicenda umana, per la nostra concretezza, soprattutto per chi non ce la fa. Fede dunque, non come adesione ad un sistema di credenze, ma come fiducia nella vita, intesa come pienezza, come ricchezza profonda, come incontro, come dialogo. Il riferimento evangelico è ovviamente Gesù di Nazareth, una figura che è di rottura, ma anche di conciliazione profonda, di accoglienza costante, per me è la centralità assoluta dell’opzione amore».
Uno dei grandi temi di oggi e che trova ospitalità tra le pagine del “Giornale di Rodafà” è la spiritualità. «Senza di essa non si può vivere. Qualunque ricerca appassionata di senso, di approfondimento, ha una dimensione di spiritualità molto intensa. La spiritualità è continuare a farsi domande, ci si inquieta, e si scopre la necessità di non fermarsi mai».
Ma qualche volta anche il padre, il marito, il bancario, il giornalista, lo studioso Sodaro si ferma. «Al mattino, dopo il risveglio. Leggo le letture del Lezionario, e resto in silenzio. Ho bisogno di spazi anche prolungati di silenzio puro, è la prassi coinvolgente e profondissima del mio modo di pregare».
© 2021 Romina Gobbo Avvenire - Noi in famiglia - domenica 16 maggio 2021 - Pag.VII