«Non inquinava, era silenziosa come lo è il nostro territorio, connotato dalla campagna, era confortevole, di velocità e dimensioni adeguate ai paesi, costava poco. Aveva tutte le caratteristiche per poter essere citata nell’enciclica Laudato si’ di papa Francesco». Si tratta dell’Urbanina, una “micro-car” ecologica ante litteram, che offriva molte delle soluzioni che si ritrovano nelle auto elettriche di oggi. È molto orgoglioso don Andrea Pio Cristiani, arciprete della Collegiata di Fucecchio (Fi), di suo papà Narciso, meccanico geniale che, negli anni Sessanta, in terra di Toscana – su incarico del marchese Pier Girolamo Bargagli Bardi Bandini – fu l’artefice del primo tentativo di produrre un’auto a propulsione elettrica. A Staffoli, paesino posto sul confine di tre comuni della provincia di Pisa – Santa Croce sull’Arno, Fucecchio e Castelfranco di Sotto -, vide la luce il sogno di due “visionari”: l’Urbanina, così chiamata, perché realizzata per muoversi nei piccoli centri urbani. Presentata al Salone dell’Automobile di Torino nel 1965 e nel 1966, la “vetturetta”, pur omologata, non fu mai commercializzata, probabilmente perché non c’erano ancora le condizioni per poter sviluppare una tecnologia adeguata per la realizzazione su scala industriale. Per attuare il progetto, il Marchese mise a disposizione di Narciso un capannone-officina sulle colline di Poggio Adorno, proprio dietro la sua villa di famiglia. Lì le Urbanine venivano costruite con mente, cuore e braccia. Non vi erano rulli, nastri trasportatori, robot, gru. Con Narciso Cristiani, lavoravano Aimone (il figlio più grande), gli ingegneri Martini e Micheletti, il disegnatore Landi e tanti altri, che realizzavano prima i telai, poi aggiungevano il motore elettrico, i freni, le batterie… infine la carrozzeria. L’estesa proprietà permetteva lo svolgersi in loco delle prove di autonomia. Dovevano essere “auto da guidare anche con il cappello”. Così alcune furono costruite senza cabina. C’era il modello “base”, con un semplice parabrezza; la “primavera”, con una leziosa cabina in vimini; la “berlinetta, con una struttura chiusa in materiale plastico. Poi arrivarono anche l’Urbanina-jeep, e gli allestimenti pick-up.

Il peso della vettura era di circa 260 Kg, ridottissime le dimensioni, posto solo per due: 1,96 metri, un metro più corta della Fiat 500 di quegli anni. Per i primi prototipi fu utilizzato un piccolo motore da 700W alimentato da quattro batterie da 100 Ah. La successiva versione adottò un motore Bosch da 1 Kw. Le batterie elettriche furono fatte costruire della Tudor con struttura più idonea alla curva degli assorbimenti. Ma la vera innovazione, di cui scrisse anche il giornalista Indro Montanelli, era data dalla carrozzeria girevole: la cabina poteva ruotare a 360 gradi per poter scendere sia dalla parte della strada, che da quella del marciapiede.
La Fiat e la Mercedes manifestarono il loro interesse, ma poi tutto si arenò. «Due uomini innovativi proposero una mobilità alternativa, a inquinamento zero, in un mondo con una coscienza ambientale ancora da sviluppare. Una scelta controcorrente, che non avrebbe potuto trovare appoggio nel pieno boom della benzina super. Il sogno di città liberate dal traffico e dallo smog si infranse», conclude don Andrea. Da fondatore del Movimento Shalom, onlus che si occupa di giustizia sociale, ricorda come da allora sia andata sempre peggio, fino ad arrivare all’oggi, con il pianeta ormai al punto di non ritorno. Per onorare la memoria di papà e dell’amico marchese, don Andrea ha fondato l’associazione “L’auto elettrica tra passato e futuro”, formata da appassionati della storia dell’Urbanina. «Un mezzo ecologico prima ancora che esistesse il concetto di ecologia», come l’ha definita il sindaco di Fucecchio, Alessio Spinelli, nel libro “La nostra Urbanina. Avanguardia d’altri tempi” (a cura di Antonello Biscini – Edizioni Movimento Shalom).

© 2021 Romina Gobbo pubblicato su avvenire.it - martedì 27 luglio 2021 - Pag.A18
