Mentre scorrono da giorni le immagini di Kabul, la domanda che mi pongo è: che cosa sarebbe la guerra senza le immagini? Senza le cronache in diretta? Prima le telecamere, oggi i telefonini. Quello che non è coperto da immagini, praticamente non esiste. La guerra dura finché durano le immagini che la raccontano. L’Africa è piena di guerre invisibili, non si raccontano, non esistono. E, quando le raccontiamo, cerchiamo di affievolirne la brutalità. Le guerre che non vogliamo siano guerre, sono conflitti tribali o interventi militari. Le vittime sono “effetti collaterali”. L’informazione viene ammaestrata, arruolata, livellata, per legittimare la guerra. Le voci fuori dal coro zittite. La guerra è maschia, ma la storia dimostra che da sempre pesa di più sulle donne. Srebrenica, il Ruanda, l’Afghanistan. Per chi la combatte, la guerra è sempre patriottica. Il nemico è sempre un terrorista, un essere mostruoso, disumano, che oggi si può abbattere con un joystick. Una sagoma lontana chilometri, boom. Non un nome, non un volto, non un corpo. La costruzione del nemico è parte fondamentale della guerra. Il Bene contro il Male, i Buoni contro i Cattivi. Ma chi decide chi sono gli uni e chi gli altri? E, quando viene il momento “di esportare la democrazia”, serve il consenso popolare. Allora la guerra diventa umanitaria: bombe e latte in polvere. Aviolanci e tagliagole.
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© 2021 Romina Gobbo pubblicato su LinkedIn/Facebook - venerdì 3 settembre 2021