Burkina Faso. Chiesa alla prova tra jihādismo, armi e povertà

«Oggi il nemico è dentro casa, e questo è terribile. I nostri figli uccidono i loro fratelli. Perché?» Il grido di allarme viene da monsignor Théofile Nare, vescovo di Kaya, nel nord del Burkina Faso, una novantina di chilometri dal confine con il Mali. Lo incontriamo nella sua residenza, di prima mattina, prima della sua partenza per la visita pastorale nelle tredici parrocchie che afferiscono alla sua diocesi. «Prima erano le province Nord, Est, Sahel, infestate da terroristi che arrivavano da oltre confine – spiega il presule -, adesso nessun luogo è sicuro. L’intero Pese è diventato pericoloso». L’incapacità di gestire gli attacchi di matrice jihādista che, iniziati nel Mali una decina di anni fa, sono ormai penetrati anche nel Burkina, hanno portato, lo scorso gennaio, alla deposizione del presidente eletto Christian Kaboré, e all’insediamento al suo posto, per un governo di transizione, del colonnello Paul-Henri Sandaogo Damiba.

Nel 2019 padre Siméon Yampa, sacerdote cattolico a Dablo, è stato ucciso con altri cinque fedeli mentre celebrava la Messa. Il 21 gennaio 2021 è stato trovato morto nel territorio di Banfora, padre Rodrigue Sanon, della parrocchia di Notre Dame de la Paix de Soubaganyedougou, molto probabilmente assassinato. E di padre Joël Yougbaré, rapito in un villaggio della provincia di Soum, non si hanno più notizie da tempo. «Sono fatti terribili che ci addolorano profondamente – riprende monsignor Nare -, però non è giusto dire che l’accanimento è contro la Chiesa cattolica, perché sono stati uccisi anche tanti musulmani e tanti protestanti. Non è una guerra di religione, così come non è una guerra fra etnie. Conflitti per la terra o per il bestiame ce ne sono sempre stati, ma venivano risolti senza grandi danni. Quello che è cambiato è che sono comparse le armi. I terroristi attaccano i villaggi, uccidono, stuprano le donne, depredano. Tutto questo crea divisioni nella popolazione. Abbiamo sempre vissuto in pace con i musulmani, le nostre famiglie sono miste, ma la violenza insinua il dubbio. I nostri cattolici vorrebbero che i musulmani prendessero apertamente posizione contro i terroristi. Loro, però, sono cauti. Per me è comprensibile, temono per sé e per i loro cari. Ma i nostri faticano a capire e si chiedono il perché di questo silenzio».

Kaya è il primo punto di approdo per chi fugge da nord verso sud. Centinaia di chilometri a piedi. Donne con i figli al collo, vecchi che si trascinano sfiniti attraverso la savana, quella che qui per tutti è la “bush” (francese: broisse). Anche Kaya è stata colpita, ma al momento è ancora relativamente sicura. La gente arriva, si ammassa allo stadio, e attende il proprio turno per una tenda in uno dei sei campi profughi. L’afflusso è costante e la città fatica a sostenere tutte queste persone. «Noi cattolici siamo stati sollecitati ad aiutare. Facciamo quello che possiamo attraverso la Ocades, la Caritas locale. Ci sostengono anche congregazioni come i fratelli della Sacra Famiglia, ma anche onlus italiane, come Acqua nel Sahel, fondata dal vescovo Pier Giorgio Debernardi, qui missionario, o il Movimento Shalom. E, nel frattempo, cerchiamo anche di capire le cause di questa violenza. Ne abbiamo discusso come Chiesa in un grande forum. Noi riteniamo che il problema sia l’abbandono da parte dei governi centrali delle terre del nord. In quelle aree non è mai stato incrementato lo sviluppo: mancano strade, scuole, dispensari. C’è tanta povertà. Questo senso di abbandono porta molti nostri giovani ad imbracciare le armi. Per i terroristi è facile strumentalizzarli. Chi non ha lavoro, va dove c’è il denaro, anche se la proposta è per un’attività illegale. Bisogna vivere prima di filosofeggiare».

Burkina Faso. Kaya. Campo profughi gestito dalla Ocades, Caritas locale. Credits Romina Gobbo

Poi il pensiero va all’Ucraina. «Un altro paese vittima della politica dei grandi: Nato e Russia che si fronteggiano. Sarebbe bene per gli ucraini vivere in uno stato neutro, ma non credo che glielo lasceranno fare. La gente semplice non capisce le ragioni della guerra, ma la subisce. Noi preghiamo per la popolazione civile e per quanti stanno soffrendo».

© 2022 Testo e foto di Romina Gobbo 

pubblicato su Avvenire - Catholica - venerdì 1 aprile 2022  Dida foto di copertina: un gruppo di profughi a Kaya, in Burkina Faso

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