Da Sarajevo a Przemysil per i fragili, Alessandro non si stanca mai

Sergey, sulla cinquantina, è diabetico, necessita di dialisi. Ruslan, vent’anni, è autistico, così come Imre, che di anni ne ha sette. Tatiana, 65 anni, è in sedia a rotelle. Anche Nikita è in sedia a rotelle, ma ha anche problemi cerebrali. Con la sua famiglia sono rimasti quindici giorni in uno scantinato mentre fuori bombardavano. Kostia, sei anni, ha problemi di udito e indossa l’apparecchio acustico. Un’anziana girovaga per i corridoi, è disorientata, bisogna stare attenti che non prenda la porta. Alessandro Dalla Pozza, vicentino, 59 anni, è un porto sicuro per gli sfollati che dagli inizi di marzo da Leopoli (L’viv), in Ucraina, attraversano la frontiera di Medyka verso la Polonia e, in una quindicina di chilometri, raggiungono Przemsyl, nell’ex centro commerciale Tesco, adibito ad hub di transito per i rifugiati. Lì, Alessandro, con il collega Stefano Reverdito, si sono “specializzati” nell’aiuto alle persone più vulnerabili. Per questo hanno abbracciato il progetto Mir now (Pace ora), che riunisce alcune realtà torinesi impegnate nel campo della fragilità. la capofila, la cooperativa sociale Pausa Cafè, la Fondazione Paideia, la cooperativa Accomazzi, l’Ufficio della pastorale dei migranti, la Fondazione casa Giglio.

«Il punto di forza del nostro progetto sta nella volontà di offrire accoglienze che tengano conto delle specificità di chi viene accolto», spiega Marco Ferrero, presidente di Pausa Cafè. Egli stesso ha accompagnato in pullman da Przemsyl a Torino circa una settantina di persone, più sono state effettuate una quindicina di evacuazioni facilitate, con gli aerei attrezzati dalla Guardia di Finanza, messi a disposizione dalla nostra Presidenza del Consiglio. «Ruslan è stato preso in carico da Paideia, che si occupa di bambini con disabilità. Tatiana è stata ospitata nel piccolo Cottolengo, dove avrà cure ed affetto, che forse è ciò che più le manca – riprende Dalla Pozza -. Abbiamo rintracciato la figlia che vive a Londra, ma della madre non ne vuole sapere. Per Nikita invece ci siamo rivolti alla Comunità Papa Giovanni XXIII. Per evacuare le persone più fragili utilizziamo l’aereo. Ruslan, per esempio, non sarebbe stato in grado di affrontare le venti ore di pullman dalla Polonia al Piemonte. Noi non gestiamo pacchi, ma persone, con le loro storie, a volte pesanti. Spesso piango con loro. Impossibile non essere sopraffatti dalle emozioni».

Il centro profughi di Przemsyl, aperto 24 ore su 24, vede un continuo via vai tra chi arriva, stremato dalla guerra, e chi parte, perché ha trovato una destinazione. Nei primi giorni era arrivato a contenere anche 3.000 persone, in situazioni piuttosto precarie, brandine a terra e pochi bagni. «L’afflusso varia a seconda di quanti riescono ad uscire da Leopoli», dice Alessandro. Tecnico di laboratorio presso l’Istituto Zooprofilattico Sperimentale delle Venezie, si muove come volontario nei teatri di guerra dai tempi di Sarajevo, dove fu tra gli organizzatori della marcia per la pace, e dove è nata l’amicizia con Ferrero.

Centro profughi di Przemsyl, Polonia, al confine con l’Ucraina

«Lavorare in situazioni di emergenza cementa i rapporti, sia tra volontari – qui a Przemsyl ne sono arrivati da tutti i paesi del mondo – e, soprattutto, con gli assistiti, con i quali nascono amicizie durature. Con i “miei evacuati” sono in costante contatto attraverso WhatsApp. Anche perché voglio essere certo che arrivino a destinazione. Ci sono già stati casi di persone scomparse o raggirate. Ecco perché quando qualcuno parte, fotografo il documento di identità dell’autista e la targa del mezzo, ed esigo di essere avvisato per qualsiasi problema».

© 2022 Romina Gobbo 

pubblicato su Avvenire - mercoledì giovedì 7 aprile 2022

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