L’impegno del vescovo emerito di Pinerolo, Pier Giorgio Debernardi, a servizio dei poveri e del dialogo interreligioso
Non è cosa di tutti i giorni che un vescovo, raggiunta l’età della pensione, decida di trasferirsi missionario in Burkina Faso, uno dei paesi più poveri al mondo. Spinta dalla curiosità di giornalista appassionata d’Africa, ho raggiunto a Ouagadougou monsignor Pier Giorgio Debernardi, vescovo emerito di Pinerolo (To). Cancelliamo dalla mente l’idea dell’alto prelato con la scorta, i paramenti liturgici preziosi, e l’alloggio lussuoso. Debernardi, con la sua camicia “grigio topo”, come mi dirà in seguito scherzando sulla differenza dei colori indossati dai preti africani rispetto a quelli europei, mi recupera all’aeroporto alle 11 di sera, con il suo fido Silvestro, un giovanotto che, all’occorrenza funge da autista, segretario, e tuttofare. «La pazienza è la sua virtù migliore», dice monsignore che, preoccupato che io non abbia mangiato quella meravigliosa lasagna che ti propina l’Air Turkish, sceglie di cominciare la nostra avventura con… “il botto”. Cappuccino al caffè “Cappuccino”, quello coinvolto, assieme all’hotel Splendor, nell’attentato del 16 gennaio 2016, che provocò 27 morti, 33 feriti, 150 ostaggi, liberati dopo un lungo scontro a fuoco. Il locale ha riaperto, ma il controllo all’ingresso ha il sapore della paura che aleggia in città, e della ferita, suturata, ma mai guarita completamente.
Non si poteva non partire da lì, perché proprio quel giorno la storia del Burkina Faso è cambiata. Il terrorismo, partito dal nord, nella regione del Sahel, era penetrato nella capitale. «Da allora il paese non è più lo stesso – dice Debernardi -. I terroristi uccidono, depredano, ma anche mettono gli uni contro gli altri. Reclutano i giovani offrendo loro soldi facili, mettendo a repentaglio la coesione sociale». Lo denuncia in continuazione nella pagina Facebook di “Acqua nel Sahel”, la onlus costituita con gli amici Patrizio Righero e Roberto Giuglard. E’ inevitabile che anche il prete, oltre a svolgere il suo servizio ministeriale nella parrocchia di Tanghin, si interessi di quanto accade dal punto di vista politico. E, ogni giorno, assieme alla colazione, non mancano i quotidiani. «Ogni vicenda ha ripercussioni inevitabili sulla popolazione, soprattutto quella più giovane, battagliera, che non accetta più di vivere senza una speranza. Il recente colpo di stato, che ha dato origine ad un governo militare, era stato ben accolto per il suo programma di contrasto al terrorismo e alla corruzione, ma l’umore è già cambiato, perché gli attacchi si sono intensificati, e milioni di sfollati dal nord si stanno riversando al sud, con tutto quello che ciò comporta».
Soprattutto in termini di approvvigionamento. Seguo Debernardi tra gli sfollati di Pazani, località alla periferia della capitale. Donne e bambini ammassati, in perenne attesa di tutto. Serve un pozzo, la specialità di “Acqua nel Sahel”, nata proprio con l’obiettivo di portare l’acqua a chi non ce l’ha. «Verremo presto con la trivella», dice Debernardi. La stretta di mano sancisce il contratto. E il capo villaggio si sente subito rassicurato.
Nel frattempo, l’attività ordinaria non si ferma. Assisto alla messa della domenica. È un tripudio di canti. E, alla fine, tutti vogliono la foto con “Monsignore”, lo chiamano semplicemente così. Soprattutto qui, nel compound Shalom, il Movimento per la pace fondato a San Miniato (Pisa) da don Andrea Cristiani, si svolge la missione di Debernardi, che è anche quella di animare i giovani dell’Università. «Sono cristiani, musulmani, alcuni appartengono alle religioni tradizionali. Li aiuto a dialogare, perché è l’unico modo per contrastare la disgregazione. Nella cappella, dove celebro, ho appeso un quadro, con un campanile e un minareto che si abbracciano. In fondo, sta tutto lì».
Non più di un chilometro divide il compound Shalom, dove io alloggio, dall’ex Nunziatura, dove Debernardi vive, ospite delle suore Pie Discepole del Divin Maestro. La distanza è poca, ma il sole è cocente, il caldo tra febbraio e giugno è insopportabile, l’asfalto un miraggio. Le buche sono la cifra di un paese che non ha ancora fatto pace con le infrastrutture. Vedo Debernardi sfrecciare con il suo motorino su quello sterrato di sabbia rossa, dribblando per evitare le buche, incurante dei suoi 82 anni. «L’età ha i suoi piccoli vantaggi – dice -. Qui per gli anziani c’è una sorta di venerazione. Se entro in un qualsiasi ufficio, e non c’è una sedia libera, immediatamente qualcuno si alza e mi lascia il posto».
La colazione alla stazione di servizio prima di affrontare il viaggio è un rito dal sapore tutto italiano, anche se il caffè ha poco a che vedere con l’Espresso. Ma oggi c’è aria di festa. Abbiamo comprato anche i fiori. Si inaugurano ben due pozzi a Kaya, a nord di Ouagadougou. Kaya è il primo approdo per gli sfollati che fuggono dal nord devastato dai terroristi ed è anche l’ultima città che si può raggiungere con una certa sicurezza. Oltre è zona rossa. Il pick up di frère Charles Sawadogo, religioso dei Fratelli della Sacra Famiglia, ci consente di percorrere i circa 130 chilometri in un tempo normale. Il che in Africa è tutt’altro che scontato. Scoprirò dopo che frère Charles è anche l’ingegnere civile che progetta i pozzi, i quali sono poi realizzati fattivamente da giovani che i Fratelli della Sacra Famiglia hanno prima formato e ai quali poi hanno offerto un lavoro. Così il pozzo diventa un tramite: chi ha avuto un’opportunità, aiuta chi si trova nel bisogno. Quell’acqua è una manna per le donne, perché sono loro che ogni giorno devono percorrere chilometri col secchio in testa, il neonato sulla schiena, e gli altri figli per mano. Non è un caso che all’inaugurazione ci sia la vice sindaca di Kaya, madame Binta Souadougou. Da donna conosce la fatica delle donne. Quel pozzo con sistema “volanta”, cioè con la ruota, meno pesante da far funzionare rispetto a quelli con la carrucola, sa prima di tutto di umanità. Il “Grazie al pozzo” cantato a squarciagola è un effluvio dell’anima. Allora come non premiare con succulenti bonbon questi piccoli cantori? Ma il pozzo qui si fa anche ponte. Ad applaudire Debernardi ci sono i cristiani, ma anche i musulmani e i protestanti. Pregano fianco a fianco. “Dare da bere” è solidarietà, ma è anche un atto simbolico. Perché dalla notte dei tempi l’acqua purifica e lava via le incomprensioni. Chissà. Magari la ricostruzione del tessuto sociale può ripartire da qui. Dalla giornalista appassionata d’Africa, per ora è tutto.
© 2022 Testo e foto di Romina Gobbo pubblicato su Vita diocesana pinerolese - n.8 - domenica 24 aprile 2022