A Gallio, sull’Altopiano dei Sette Comuni in provincia di Vicenza e diocesi di Padova, tutti – anche i villeggianti – sanno che la famiglia Gloder è totalmente dedita alla parrocchia di San Bartolomeo, ma non solo, anche alle altre chiese e cappelle sparse nel territorio. Una tradizione che oggi portano avanti le sorelle Assunta e Cecilia, entrambe nubili, da oltre 60 anni sacrestane
della parrocchia.
«Eravamo piccoline», dice Assunta, che ha 70 anni, «e vedevamo il papà e lo zio aprire e chiudere la chiesa, fare le pulizie, allora molto pesanti, perché non c’erano elettrodomestici. Per i pavimenti usavano la segatura e dovevano spostare sedie e arredi vari. Posizionavano i fiori e preparavano tutto il necessario per le Messe. E suonavano pure le campane, tirando a mano la fune. La notte tra Ognissanti e il 2 novembre, con un fiaschetto di grappa per vincere il gelo, papà e zio salivano sul campanile. Stavano là fino all’alba a suonare le “campane a morto”.

Oggi è tutto cambiato, è tutto automatizzato. Le campane sono cinque, ma noi, la sera del 2 novembre, ne suoniamo solo una, la più grande, chiamata “il Bortolo”, in omaggio al patrono san Bartolomeo. È un suono “grave e profondo”, che la gente ascolta dalla finestra, con un lume acceso, ripensando ai propri cari defunti». La tradizione familiare è così pregnante che le sorelle, nel 2016, hanno ricevuto, dalle mani del cancelliere della Curia, la stessa onorificenza
vaticana che lo zio Lorenzo aveva ricevuto nel 1978, la Croce pro Ecclesia et Pontifice, che viene conferita ai laici che si distinguono per il loro servizio alla Chiesa.
«Erano così commosse che non riuscivano neanche a parlare», racconta don Federico Zago, parroco di Gallio. «Quando il cancelliere, che presiedeva l’Eucaristia, le ha chiamate, sono scappate in sacrestia. Nella loro umiltà, loro ritengono di non fare nulla di straordinario. Invece sono preziose. Quando arrivo in chiesa, trovo tutto pronto: riscaldamento acceso, calice posizionato, Lezionario aperto sulle letture del giorno, ostie contate per la celebrazione. Devo solo indossare tunica, stola e casula. Anche i turisti che arrivano sanno di dover bussare alla finestra di Assunta e Cecilia affidando loro qualche intenzione di preghiera affinché venga portata nelle celebrazioni. La cosa più bella è che sono donne serene. È la gioia di chi si affida totalmente al Signore».
PRIMA LA CHIESA, POI LA CASA
Sono belle persone Assunta e Cecilia, sempre sorridenti, il viso pulito della gente di montagna, dove il sacrificio è parte della vita, ma non viene sentito come tale. Ad aprire e chiudere la chiesa è Cecilia, 80 anni, che è anche un’ottima poetessa: «Prima la chiesa, poi la casa, diceva papà. Per dedicarsi alla parrocchia ci vuole tanto amore. Bisogna volerle bene. L’abbiamo imparato in famiglia. A casa nostra tutti erano ben consapevoli di quello che vuol dire credere, non sono mai servite tante parole. Siamo cresciute così».
«Fu entusiasmante allestire l’altare sul monte Longara, che sovrasta Gallio, per l’arrivo, il 16 luglio 1988, di Giovanni Paolo II. Oggi lì sorge il suo busto e, ad ogni anniversario, la memoria di quella visita si rinnova con la celebrazione dell’Eucaristia», riprende Assunta. Ma quella volta incontrare papa Wojtyla non fu possibile. L’allestimento in Vaticano, lo scorso Natale, del presepio realizzato dai giovani galliesi, ha reso invece possibile incontrare papa Francesco, presente all’inaugurazione.
«Siamo andate a Roma con il parroco, don Federico, e il vescovo Claudio Cipolla, che ha raccontato al Santo Padre la nostra storia. Papa Francesco allora si è fermato davanti a noi, ci ha guardate negli occhi e ci ha stretto la mano, incoraggiandoci a continuare. Un’emozione grandissima», concludono in coro le sorelle.

© 2022 Romina Gobbo pubblicato su Credere - 9/2022 - pagg.26 e 27