Fare il punto sull’accaparramento delle terre, significa anche fare il punto su quello che tale accaparramento comporta. Non vi è dubbio che si tratta di un fenomeno “multidimensionale”, che produce impatti sulla sicurezza alimentare, sulla sicurezza idrica, sui diritti umani, i diritti delle donne – da sempre protagoniste del lavoro agricolo -, sui bambini, sulla salvaguardia ambientale e sull’emigrazione. Poter disporre della terra, oppure no, fa la differenza, soprattutto se ci riferiamo al continente africano che produce il 24% della superficie agricola utilizzabile a livello mondiale. Ma su quella ricchezza hanno posato occhi e mani le multinazionali, che devono produrre in maniera estensiva, i grandi gruppi finanziari, che sanno bene che sotto quella terra ci sono enormi quantitativi di risorse minerarie, la criminalità, micro o macro che sia, che necessita di ampi spazi d’azione per gestire il proprio malaffare, e che ha stilato proficue “collaborazioni” con gli jihādisti. I governi, corrotti al punto giusto, si sono prestati a vendere agli stranieri quella terra così preziosa per le popolazioni locali, a fronte di tornaconti personali ben custoditi nei forzieri oltre oceano. Si è arrivati così ad un drammatico paradosso: grandi appezzamenti di terra sottratti a paesi minacciati da enormi problemi di carenza alimentare, che servono a soddisfare i fabbisogni alimentari ed energetici dei paesi più ricchi. L’accaparramento delle terre è possibile per svariati motivi, tra cui ovviamente la collusione dei governi con gli “investitori” esteri, ma anche il fatto che il sistema legale africano è inadeguato: praticamente non esistono i certificati di proprietà, non è previsto l’obbligo del consenso legale dei locali per il trasferimento della terra, le compensazioni derivate dall’esproprio sono spesso insufficienti, quando i locali vengono impiegati nelle aziende aperte dagli stranieri, fungono sempre da manovalanza a basso costo, e i risarcimenti nel caso di preclusione dei locali alle risorse naturali, non vanno quasi mai a buon fine.
La situazione si complica ulteriormente quando ad andare “a caccia” di terre, non sono le imprese multinazionali, bensì i delinquenti comuni, o le bande più strutturate, magari collegate alla grande criminalità organizzata, o alla matrice jihādista. Perché se è vero che, almeno sulla carta, esistono degli strumenti regolatori connessi all’accaparramento delle terre, chiamiamolo “legale”, è ovvio che tali strumenti non hanno alcun valore per organizzazioni alle quali estese porzioni di territorio servono a condurre ed occultare i propri traffici. E, infatti, questi gruppi si sono insediati nelle aree rurali saheliane, dove razziano, depredano e terrorizzano le popolazioni civili. Così, città come Djibo, nel nord del Burkina Faso, a 45 chilometri dalla frontiera con il Mali, sono state completamente rase al suolo, e la gente è scappata. Purtroppo non esistono dati che consentano di misurare quanta terra è stata occupata dalle organizzazioni criminali e terroristiche. Ciò nonostante, nelle aree dove questi attori sono presenti, contribuiscono in maniera rilevante a spossessare le comunità locali dal loro diritto alla terra e a una vita pacifica.
Questo capitolo, dedicato alla presenza di organizzazioni criminali e jihādiste nel Sahel, nonché all’accaparramento della terra da parte delle stesse, si divide in vari paragrafi. La riflessione iniziale intende evidenziare la globalità dei problemi, niente ci può essere estraneo, perché ciò che accade anche nel più piccolo angolo di mondo, ha inevitabilmente conseguenze che si propagano altrove. Segue un
approfondimento sul Sahel quale “anti Stato” e sulla regione cosiddetta dei “Tre confini”, tra Burkina Faso, Mali e Niger. L’attualità è data dal racconto del colpo di Stato in Burkina Faso, avvenuto tra il 23 e il 24 gennaio 2022, mentre il paragrafo relativo ai fatti del 2012 accaduti in Mali, ci aiuta a comprendere che nulla accade per caso; andando un po’ a ritroso nel tempo, si trovano le cause di quanto avviene oggi. Infine, si avanzano alcune conclusioni.
LA GLOBALIZZAZIONE DEL TERRORISMO E IL SAHEL
Il 7 gennaio 2015 la Francia fu scioccata dall’attacco terroristico a Charlie Hebdo, periodico satirico francese. Attorno alle 11.30, due uomini armati con fucili d’assalto Kalashnikov fecero irruzione nei locali della sede del giornale a Parigi, mentre era in corso la riunione di redazione. Inneggiando ad Allāh (هللا أَكْبَر = Allāhu akbar, Allah è grande, ndr), uccisero dodici persone, tra le quali il direttore Stéphane Charbonnier. Pochi istanti prima dell’attacco, il settimanale aveva pubblicato sul proprio profilo Twitter una vignetta “irriverente” su Abu Bakr al-Baghdadi, leader dello Stato Islamico (Isis). Quando la branca yemenita di al-Qā’ida (Ansal al-Shari’a) rivendicò l’attentato, il mondo vide tornare l’incubo delle Torri
Gemelle. L’impatto mediatico fu enorme. Gli attentatori erano riusciti nel loro intento: diffondere il terrore.
Qualche giorno prima, il 3 gennaio 2015, nel nord della Nigeria, a Baga, si era consumato il più atroce massacro della storia criminale del gruppo terroristico conosciuto come Boko Harām. Secondo Amnesty International, l’attacco, perpetrato con delle granate, provocò 2.000 morti. Ma la notizia non “bucò” almeno per una settimana, se non nelle testate più di nicchia. Così come non bucò l’altra notizia, la serie di incendi a luoghi di culto, che il 16 e 17 gennaio 2015 avvenne a Zinder e a Niamey, antica e nuova capitale del Niger. Nell’Africa Occidentale, all’inizio di gennaio erano stati massacrati migliaia di musulmani, a metà mese l’accanimento era stato contro i cristiani. La mia esperienza di giornalista che si occupa di dialogo interreligioso, è che i fomentatori di odio appiccano fuoco alle chiese, tanto quanto alle moschee e alle sinagoghe. Vogliono colpire al cuore la convivenza pacifica tra le persone. Quale
scusa migliore della guerra tra le religioni? La gente soffre allo stesso modo e reagisce allo stesso modo: si alzano muri di cinta, si aggiungono fili spinati, si pagano guardie giurate. La paura è il miglior alleato dei terroristi. L’Occidente, troppo concentrato su sé stesso, tende a non vedere o a far finta di non vedere che cosa accade poco più in là. Le bombe che ammazzano donne e bambini in Africa e in Medio Oriente vengono ritenute altro da noi. Ma considerare quelle occidentali vittime di serie A e quelle africane e mediorientali di serie B, è controproducente, è una divisione insensata che non fa altro che alimentare la rabbia anche in chi non l’aveva mai provata prima, con conseguenze inimmaginabili. Disinteressarci del mondo è pura miopia, perché il mondo ce l’abbiamo in casa, e perché è ormai risaputo che “il battito d’ali di una farfalla in Africa, può provocare uno tsunami in Europa”. Pensiamo alle cosiddette Primavere Arabe”: nel 2011, a seguito delle proteste in Tunisia e in Egitto, e alle conseguenti
repressioni, 60mila persone raggiunsero le nostre coste. Pensiamo agli 80mila afghani evacuati dal loro paese nell’agosto 2021, dopo il ritiro delle forze internazionali, e ricollocati fra Italia, Regno Unito, Usa, e altri paesi. Pensiamo a quanto sta accadendo in queste settimane con la guerra in Ucraina. In poche settimane, milioni di profughi sono entrati in Unione Europea. Pochi esempi che dimostrano
come i problemi irrisolti di una qualsiasi parte del mondo si ripercuotono sulla nostra vita di tutti i giorni. Eppure continuiamo a fingere che #andratuttobene, nonostante quella massiccia dose di precarietà che il Covid dovrebbe aver instillato nelle nostre vite. Il nostro grado di benessere è proporzionale al grado di sfruttamento di altri esseri umani. Traffici di droga, di persone, di armi, accaparramento di terre, petrolio, e risorse naturali, fanno parte di “questo gioco”. L’importante è che siano lontani dai nostri occhi.
E che cosa c’è di più lontano dai nostri occhi, se non il Sahel? Quella fascia di transizione tra la zona desertica del Sahara, a nord, e quella fertile della savana, a sud: 8.500 chilometri che attraversano in orizzontale il cuore dell’Africa, dal Senegal al Mar Rosso. Giusto per dare un’idea: 8.500 chilometri è la distanza tra il Friuli Venezia Giulia e Capo Nord. La fascia saheliana è vasta, grossomodo, sei milioni
di chilometri quadrati (i 27 Stati membri dell’Unione Europea occupano una superficie complessiva di 4,2 milioni di chilometri quadrati), e taglia 12 dei 54 stati del continente. Vi vivono circa 100 milioni di persone, di cui almeno 30 milioni sono in uno stato endemico di crisi umanitaria, come se metà dell’Italia soffrisse perennemente la fame. L’insicurezza limita anche l’accesso delle organizzazioni umanitarie, pertanto le comunità restano senza assistenza. Il paradosso è che nonostante i paesi che afferiscono a questo territorio posseggano ingenti risorse minerarie (petrolio il Sudan; uranio e stagno il Niger; oro il Mali; ferro la Mauritania; petrolio, oro e uranio il Ciad; manganese, calcare, rame, nichel, argento, il Burkina Faso), essi rimangono molto poveri, quasi tutti agli ultimi posti della classifica dell’Indice di sviluppo umano stilato dalle Nazioni Unite. La loro economia è basata principalmente
sull’agricoltura di sussistenza e sulla pastorizia. Molte sono le risorse minerarie ma, per l’80%, vengono esportate in altri continenti. L’uranio, per esempio, interessa in modo particolare alla Francia per tenere
in attività le sue centrali nucleari e, in questo modo, tiene le ex colonie sempre legate a quella che un tempo era la madrepatria. In Burkina Faso, dove solo una persona su cinque dispone di acqua corrente, ci sono tra le maggiori riserve d’oro del continente, ma le principali miniere sono controllate da multinazionali, come il colosso minerario Endeavour Mining.
Nel 1972 il Sahel fu colpito da uno dei più gravi fenomeni di siccità, dovuto al depauperamento delle aree umide e ad un susseguirsi di raccolti negativi, che provocarono una crisi profonda dell’agricoltura, con la distruzione quasi integrale del patrimonio zootecnico, ed ingenti migrazioni verso sud, che andarono ad ingrossare le città, creando enormi agglomerati urbani, con periferie (slum) invivibili. Il
Sahel è anche il luogo del pianeta dove le temperature aumentano 1,5 volte più velocemente che nel resto del mondo. I cambiamenti climatici in atto portano a fenomeni meteorologici estremi. I periodi di siccità, sempre più frequenti, si alternano alle grandi inondazioni. Questo in Niger, per esempio, ha causato la perdita del 12% della produzione cerealicola dal 2019 al 2020. In Burkina Faso, un terzo
del territorio del paese, oltre nove milioni di ettari di terreni, un tempo produttivi, sono ora in degrado. Il Ciad ha il record di mortalità globale dovuto all’uso di acqua non potabile: 101 persone su 100mila. Inoltre, il consumo crescente di legna e carbone da parte delle famiglie, influisce negativamente sulla vegetazione, favorendo la desertificazione, che in Mali copre quasi l’89% del territorio. In generale,
la forte dipendenza dall’agricoltura pluviale incrementa i flussi migratori circolari e stagionali dei piccoli produttori agricoli. Come si fa a vivere qui? Andarsene è una benedizione. Via, via, camminando per settimane sulla terra dei propri padri che, sempre più secca, erosa e mossa dal vento, si trasforma in sabbia. E mentre i giovani provano ad emigrare, quella sabbia, che tutto copre, è diventata il nascondiglio migliore per i gruppi jihādisti che qui, più che al Corano, rispondono a logiche di controllo del territorio e delle sue risorse.
L’ANTISTATO IN SAHEL
Il Sahel oggi è “terra di nessuno” per quanto attiene alla sicurezza, “espropriato” ai governi legittimi da tanti e diversi attori che spadroneggiano a danno delle comunità locali. La sua conformazione geografica e la sua estensione sono tali che solo gli autoctoni sono in grado di viverci e di spostarsi all’interno di esso. Se in passato, il Sahel e, nella sua forma completa, il Sahara, era meta per turisti appassionati
delle notti nel deserto, oggi le escursioni sono interdette. Il rischio di essere rapiti è molto alto, perché l’area è diventata il “quartier generale” di un tacito, ma remunerativo sodalizio fra banditismo locale e terroristi di matrice islamica, esteri e autoctoni, dedito a traffici illegali tra i più vari. Il deserto rappresenta uno spazio dove questi gruppi possono muoversi agevolmente, perseguire concretamente la realizzazione del Califfato e lottare contro i nemici occidentali. Questi gruppi, più o meno strutturati e più o meno armati, sono in realtà formazioni “liquide”, alleanze opportunistiche che si creano e si disfano in continuazione, anche sulla base di rivalità etniche e sociali, rivendicazioni autonomiste e scontri confessionali. Alcuni si rifanno ad al-Qā’ida, altri all’Isis, con un grado variabile di affiliazione.
Controllare una tale area è impossibile. Le varie forze internazionali lo sanno bene, e infatti sono in grossa difficoltà. Secondo il report “Africa at a tipping point” della Fondazione Mo Ibrahim, negli ultimi dieci anni l’attività terroristica in Africa è aumentata del 1000%. «Nel Sahel siamo in presenza di una sorta di “anti Stato”», chiosa Pier Paolo Santi, analista dell’Osservatorio Mediterraneo sulla Criminalità Organizzata e Mafia (OMCOM). «Il traffico illecito di armi e droga, a cui si aggiungono la compravendita” di migranti, la richiesta di “pizzo” per il transito, le tasse arbitrarie imposte alle popolazioni locali, lo sfruttamento delle risorse minerarie e i riscatti ricevuti per il rilascio di cittadini rapiti, costituisce un’economia parallela, che potrebbe rinominare questo territorio come Narco-Sahel», dice Mauro Armanino, missionario della Società delle Missioni Africane (SMA), di stanza in Niger. Gli jihādisti-criminali, esperti anche nel riciclaggio di valuta, perseguono un obiettivo ambizioso: controllare le rotte regionali del narcotraffico, ovvero far sì che la droga proveniente dal Sudamerica, attraversi agevolmente la fascia nord-africana, per poi approdare nei mercati europei.
«Tra foreign fighter (sauditi, qatarini, ceceni, azeri, siriani, iracheni, libici), e autoctoni, la stima totale degli jihādisti dell’Africa occidentale potrebbe aggirarsi sui 10mila uomini – dice Carlo Biffani, esperto di terrorismo, consulente sui temi della sicurezza -, ma è praticamente impossibile avere certezze». Gli arabi portano con sé il wahhabismo dall’Arabia Saudita e il neo-salafismo12 dal Qatar. Chi arriva
da fuori ha imparato presto che in Africa il sangue conta più della religione. Ecco allora che imparentarsi con i clan locali, sposandone le donne, diventa il miglior sistema per trovare appoggi e coperture.
Così come lo è sostituirsi ad uno Stato incapace, magari creando un sistema di welfare alternativo. Gli jihādisti, da un lato usano la violenza – bruciano villaggi, fanno razzie, stuprano le donne, rapiscono bambini – e, dall’altro, realizzano scuole, ospedali, pozzi, e implementano attività caritatevoli, grazie alla zakāt, in aree dimenticate dai governanti legittimi, che non hanno mai perseguito lo sviluppo
dei loro paesi, né il miglioramento delle condizioni di vita delle loro genti. Anzi, spesso hanno “arraffato” il più possibile, portando i loro capitali all’estero, e creando sistemi corrotti dove pochissimi vivono nella bambagia, mentre il grosso delle popolazioni è in condizioni di miseria. Questo evidenzia ulteriormente un problema sociale e politico importante, ovvero la disaffezione – se non addirittura
l’opposizione che arriva anche allo scontro – con i governi centrali. C’è una parte di popolazione – seppur minoritaria – che supporta le cellule estremistiche perché si sente abbandonata dalle istituzioni. L’attenzione al tessuto sociale locale da parte dei gruppi jihādisti è evidenziata in un documento ritrovato a Timbuktu (Mali), a firma di Abdelmalek Droukdel, leader di al-Qā’ida nel Maghreb Islamico (Aqmi), ucciso dai francesi il 5 giugno 2020. Nel documento, reso pubblico dall’Associated Press, si evidenziano gli errori compiuti, criticando per esempio la rapidità con la quale è stata imposta la shāri’a nel nord del Mali, “senza tenere nella giusta considerazione l’ambiente, cosa che ha comportato il rigetto della religione da parte della popolazione locale”. Il problema è che si tratta di un welfare creato “col
metodo jihādista” (warfare), ovvero bruciando le scuole, e sostituendole con le madrase.
D’altra parte, le forze di polizia degli Stati saheliani sono male equipaggiate, male addestrate e mal pagate. Non sono, quindi, in grado di contrastare le minacce. Il rischio è che, quali che siano le motivazioni dei vari attori illegali – politiche e ideologiche nel caso di formazioni terroristiche o di puro profitto nel caso delle organizzazioni criminali -, “la vera minaccia consiste nella capacità di riempire i
vuoti lasciati dagli Stati, e di strutturarsi come dei veri e propri ‘complessi politici emergenti’, ossia di quelle nuove forme di gestione razionale del potere sorte in diversi paesi lacerati da profondi conflitti e in cui è definitivamente crollata, o risulta fortemente debilitata, la struttura statale e, soprattutto, ogni sua forma di legittimità”.
In questo “anti Stato canaglia”, che è ormai diventato il Sahel, le attività criminali si sono evolute negli anni. I primi proventi arrivavano dai rapimenti di stranieri poi, via via, si sono aggiunte le “donazioni estere”, in particolare da parte dei “magnati del petrolio”, “esportatori di islam wahhabita”. Il fatto che le attività criminali siano vietate (ḥāram) dall’Islam, fa capire che le bande terroriste nord-africane
strumentalizzano anche la religione per i loro fini criminali. Più problematico, invece, il rapporto con la religione per gli jihādisti autoctoni. «La natura stessa del trafficante convertito è ambigua – spiega l’analista Pier Paolo Santi -, soprattutto se intende rispettare dettami religiosi. Se la conversione, cioè, è sincera, il soggetto potrebbe presentare il tipico zelo del neo convertito (pericolosissimo) ed
essere, quindi, in conflitto con lo stesso ruolo del trafficante. Doversi occupare di soldi, droga, traffico di uomini…, può mettere in crisi il soggetto». Infine, data la ricchezza del sottosuolo dell’area, tutti gli attori internazionali sono presenti: francesi, tedeschi, americani, inglesi, sauditi, emiratini, katarini, brasiliani, russi, cinesi… Per proteggere i propri interessi, ciascuno arma e foraggia gruppi di miliziani locali.
Trovare in continuazione nuova “forza lavoro” tra chi non ha altro se non fame, rabbia e frustrazione, è piuttosto facile. In un contesto di miseria totale, quella jihādista si presenta ai giovani come un’ideologia paritaria e, soprattutto, come una “possibilità di riscatto”. I giovani vengono “assunti” come autisti, guide, scorte, logisti e quant’altro. Guidano convogli – moderne “carovane” – senza neanche sapere chi o
che cosa trasportano, inconsapevoli dei rischi. Molti Tuareg che, prima del 2016, lavoravano come “facilitatori” per far transitare attraverso il nord Africa i migranti che volevano raggiungere l’Europa, dopo il 2016, quando, su pressione degli Stati europei, questa attività è stata posta fuori legge, si sono ritrovati disoccupati diventando, anch’essi, facile manovalanza per gli jihādisti. Prima trafficanti alla luce del sole, oggi in clandestinità. Nella catena organizzativa ogni persona conosce solo quello che deve conoscere. Per questo, queste attività sono difficilissime da smantellare. Si possono arrestare
delle persone, interrompere delle rotte, individuare le cosiddette «cellule intermedie ed eventuali connessioni», come le chiama l’analista Pier Paolo Santi, ma vincere la guerra è tutt’altra cosa.
Quando, poi, avvengono razzie, rapine e omicidi, anche importanti, pensiamo al caso dell’ambasciatore italiano nella Repubblica Democratica del Congo, Luca Attanasio, ammazzato il 22 febbraio 2021, con il carabiniere della scorta e l’autista, in un attacco dai contorni oscuri, nel Nord Kivu, si pone in essere qualche arresto di facciata, ma né mandanti né esecutori vengono realmente cercati e puniti. L’impunità e l’ingiustizia divengono, così, un altro dei fattori che contribuiscono a far sentire le popolazioni abbandonate. La disperazione è pessima maestra, e conduce dritta dritta nelle mani degli jihādisti.
Riassumendo sinteticamente le presenze delle forze jihādiste nell’area saheliana, agiscono in particolare gruppi armati fedeli ad al-Qāi’da, riunitisi sotto la sigla “Gruppo a sostegno dell’Islam e dei Musulmani (GSIM). Ma è presente anche lo Stato Islamico del Grande Sahara (SIGS), affiliato all’Isis dal 2015. Il fondatore, Adnan Abu Walid al-Sahrawi, considerato dalla Francia un “nemico prioritario”, è stato ucciso a settembre 2021. Secondo Tricia Bacon e Jason Warner, ricercatori del Combating Terrorism Center, “Il 41% di tutte le morti globali inflitte dai militanti dello Stato islamico nel 2019 sono avvenute in Africa”. Tuttavia, va considerato che non è sempre netta la cesura tra i referenti di Isis e quelli di al-Qāi’da, anzi, può succedere che cooperino in vista di un obiettivo comune.
LA REGIONE DEI TRE CONFINI O “TRI-BORDER AREA”
Tra il 2015 e il 2016, nella zona del Liptako-Gourma, “la regione delle tre frontiere”, a cavallo tra Mali, Niger e Burkina Faso, vero e proprio feudo degli jihādisti, si sono verificati alcuni degli attentati più sanguinosi dell’ultimo decennio. A causa della crescente crisi umanitaria, oltre 2,5 milioni di persone sono state sfollate all’interno della regione del Sahel, per la maggior parte donne e bambini, il 75%
delle quali non ha un riparo adeguato. L’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Alimentazione e l’Agricoltura stima che 15,5 milioni di persone vivono in situazione di carenza alimentare.
«Quest’area è tra le più pericolose del Sahel», conferma padre Mauro Armanino, che racconta come «il clima di terrore abbia un impatto devastante sulla vita degli abitanti, soprattutto sui giovani». «In famiglia – continua il missionario -si prega perché la notte passi in fretta e non ci siano incursioni». In origine fu il Mali, di cui parleremo ampiamente in seguito. Mentre il terrorismo in Burkina Faso risale al 15 gennaio 2016, con l’assalto al ristorante “Cappuccino” e all’hotel Splendid nella capitale Ouagadougou. I terroristi hanno ucciso 30 persone, ne hanno ferite 56 e hanno trattenuto per un giorno
176 ostaggi. L’attacco è stato rivendicato dagli al-Murabitum, affiliati ad al-Qā’ida nel Maghreb islamico (AQMI). I due grandi gruppi jihādisti – quello affiliato ad al-Qā’ida e quello affiliato ad Isis – si scontrano in particolare proprio lungo il confine tra il Burkina Faso e il Mali. Nel 2019 il Burkina Faso ha registrato 593 morti in 122 attacchi. E, se prima, i terroristi erano fuoriusciti dal Mali, oggi il problema è diventato anche interno al Burkina, dove – dice monsignor Pier Giorgio Debernardi, vescovo emerito di Pinerolo (To), oggi missionario nel “Paese degli uomini integri”, fondatore dell’associazione “Acqua nel Sahel” – «si è arrivati al punto che si ammazzano tra fratelli». Per quanto riguarda i primi sei mesi del 2021, secondo ACLED (Armed Conflict Location & Event Data Project), le violenze contro i civili in Niger hanno provocato 554 morti contro i 397 del 2020. Nel 2020 la Nigeria si è guadagnata il terzo posto nel mondo nell’Indice Globale del Terrorismo, dopo l’Afghanistan e l’Iraq. Mali e Burkina Faso sono in undicesima e dodicesima posizione. Da qualche anno anche paesi come Benin, Camerun, Costa d’Avorio e pure il Mozambico, nel sudest dell’Africa, sono nel mirino degli jihādisti.
IL COLPO DI STATO IN BURKINA FASO
Nel Burkina Faso, nella notte fra il 23 e il 24 gennaio del 2022, un colpo di stato militare, rivendicato dal “Mouvement patriotique pour la sauvegarde et la restauration” (Movimento patriottico per la salvaguardia e la restaurazione), ha deposto il presidente, Roch Marc Kaboré, ritenuto incapace di far fronte alla crescente violenza jihādista che ha colpito il Paese, e che ha già provocato tre milioni di sfollati. I soldati, guidati dall’ufficiale dell’esercito Paul-Henri Sandaogo Damiba, hanno dichiarato di aver arrestato Kaboré, e di aver assunto il controllo. «La sua scelta di appoggiare le milizie dei villaggi, insieme al valzer dei ministri della difesa e all’assenza di risultati, hanno segnato la sua sorte», spiega il giornalista francese Pierre Haski, di France Inter. Il golpe aveva incontrato il favore della popolazione burkinabé. «La piazza centrale fin da subito era gremita di manifestanti a sostegno dei militari – raccontava dalla capitale Ouagadougou, monsignor Debernardi -. Penso di aver colto, soprattutto
nei giovani, molta speranza. Nell’ambiente universitario dove vivo, la più parte applaude al colpo di stato di fronte al passato governo considerato troppo debole nei confronti del terrorismo. Si attende ora che la giunta militare metta in atto le sue promesse: ripartire insieme a tutte le forze positive della Nazione, riconquistare il territorio in mano ai terroristi, ricucire il dialogo tra le parti sociali, condizione
indispensabile per un autentico progresso nella democrazia». Intanto, il 16 febbraio, il leader golpista, Paul-Henri Sandaogo Damiba, ha prestato giuramento ad interim davanti al Consiglio costituzionale, che ha confermato la nomina di Damiba alla guida del Paese. Queste le sue parole: «Giuro davanti al popolo del Burkina Faso di preservare, rispettare e garantire il rispetto della Costituzione, dell’atto
fondamentale e delle leggi, e di fare tutto il possibile per garantire giustizia a tutti gli abitanti di Burkina». Due giorni dopo, il primo ministro ha nominato il nuovo governo del Paese, composto da 25 ministri, “per lavorare sodo per soddisfare le aspettative della popolazione, ma anche quelle dei partner internazionali che, vista la modalità non violenta del colpo di stato, hanno evitato al Burkina sanzioni
troppo pesanti», ha detto l’ambasciatore d’Italia in Burkina Faso, Andrea Romussi, incontrato nella sua residenza a Ouagadougou. Dall’inizio dell’anno però gli attacchi si sono intensificati e la popolazione mostra segni di insofferenza. Pertanto il governo dovrà agire con una certa celerità al fine di evitare ulteriori tensioni.
Nel suo articolo, “il Burkina Faso travolto dall’epidemia dei colpi di Stato”, il giornalista Haski sottolinea: “Il Burkina Faso, uno degli stati della regione del Sahel, è il terzo paese a subire un colpo di stato nel giro di pochi mesi, dopo la Guinea e il Mali”. I golpe salgono a quattro, se includiamo la successione poco ortodossa in Ciad dopo la morte del presidente Idriss Deby. Per non parlare del Sudan, più a est, dove i militari hanno bloccato il processo verso il ritorno della democrazia”. Ma da dove arriva tutta l’instabilità del Sahel?
NIENTE ACCADE PER CASO
Nel 2012, nel nord del Mali, in “una porzione di Sahel estesa quanto il Texas, corrispondente alle regioni settentrionali di Timbuktu, Gao e Kidal, chiamata Azawad”, i Tuareg del Movimento nazionale di liberazione dell’Azawad (MNLA), e alcuni gruppi islamisti si ribellano al presidente Amadou Toumani Tourè, proclamando unilateralmente l’indipendenza del proprio territorio (durerà fino a febbraio 2013,
ndr). Posseggono ampi quantitativi di armi, provenienti dagli arsenali libici, avendo combattuto per Gheddafi nella Guerra Civile Libica del 2011. Le forze armate depongono il presidente in carica, e cedono il potere ad un nuovo governo ad interim, guidato da Dioucounda Traorè, di simpatie filo-francesi. Nel frattempo, anche nel MNLA avvengono dei cambiamenti: “Le milizie islamiche prevalgono su quelle nazionaliste, grazie al sostegno delle brigate di AQIM (al-Qā’ida nel
Maghreb Islamico), branca nord-africana del network jihādista mondiale a forte impronta algerina, e del Mujao (Movimento per l’Unità e la Jihād nell’Africa Occidentale), nuova formazione salafita costituita da fuoriusciti di AQIM di nazionalità non algerina. In sei mesi il nord del Mali viene conquistato, e viene instaurata la shāri’a. Questo successo attira militanti islamici radicali da tutta l’Africa
(Nigeria, Mauritania, Algeria, Libia, Tunisia, Sudan, Somalia), dall’Asia (Pakistan) e persino dall’Europa (soprattutto dalle comunità africane e maghrebine in Francia). Si costruiscono allora campi di addestramento per la formazione di guerriglieri con l’obiettivo di espandere, anche fuori dall’Africa, il nuovo fronte del jihād mondiale”.
Temendo la caduta della capitale Bamako, l’11 gennaio 2013, il presidente francese François Hollande ha dato il via all’Operazione “Serval”, con l’invio di truppe di terra, e, contestualmente, con una massiccia campagna aerea. All’intervento francese si sono, via via, uniti i reggimenti di vari paesi africani (Ecowas). Nel 2014 Serval è stata sostituita dall’Operazione Barkhane, finalizzata alla messa in
sicurezza di tutti i paesi del cosiddetto Gruppo dei 5 (G5 Sahel), vale a dire Mali, Mauritania, Niger, Burkina Faso e Ciad (Force Conjointe du G5 Sahel), poiché ormai era chiaro che lo jihādismo aveva ampliato i suoi orizzonti. I 5.100 militari francesi non sono serviti a stabilizzare la regione.
Dopo dieci anni, i militanti islamisti controllano di fatto più di due terzi del territorio maliano. Arrivati dal nord, si sono via via spostati verso sud, privando dei loro campi i contadini stanziali e i pastori. Molti di questi si sono rifugiati nella capitale Bamako, costruendosi dei rifugi di fortuna. Gli jihādisti hanno saputo sfruttare le antiche rivalità tra allevatori e agricoltori, attirando nelle proprie file i peul e attaccando i dogon e i bambara. Questa “guerra nella guerra” ha provocato nel solo 2020 oltre mille vittime e oltre 350mila sfollati.
A causa degli scarsi risultati, delle perdite umane e degli alti costi finanziari (si parla di quasi un miliardo di euro l’anno), a luglio 2021 il presidente francese Emmanuel Macron ha annunciato la fine dell’Operazione Barkhane e il ritiro di metà delle truppe dal teatro saheliano a partire dall’inizio del 2022. L’altra metà sarà reimpiegata nella Task Force Takuba (dal nome della nota scimitarra tuareg), missione militare sempre a guida francese, ma multilaterale, cioè con un maggior apporto dei contingenti internazionali lì impegnati, tra cui quelli italiano, giapponese, emiratino, statunitense, ma ci sono anche forze estoni, svedesi, danesi, ceche, tedesche, belghe, portoghesi. Takuba prevede una particolare attenzione all’area delle “tre frontiere”. In Mali sono presenti anche circa 15mila caschi blu dell’operazione Minusma (United Nations Multidimensional Integrated Stabilization Mission), e l’Unione Europea con missioni di formazione militare, sicurezza interna e giustizia. Gli Usa hanno una base per droni ad Agadez, in Niger, da cui partono i comandi dei raid aerei anti terroristi.
Il 24 maggio 2021 il Mali ha registrato il secondo colpo di Stato in due anni, circa nove mesi dopo il golpe di agosto 2020. La gestione della transizione non aveva soddisfatto le aspettative dell’esercito, che ha preso il potere nella capitale Bamako. Il presidente Bah N’daw, e il primo ministro Moctar Ouane sono stati arrestati su ordine del colonnello Assimi Goita, lo stesso militare che aveva guidato il golpe
precedente, e che ricopriva la carica di vicepresidente. Portati nella base militare di Kati, sono stati rilasciati a seguito delle dimissioni dalle loro cariche. Il colonnello Goita è stato proclamato presidente, e Choguel Kokalla Maiga è stato nominato primo ministro. Il Mali è stato sospeso dall’Ecowas e dall’Unione Africana. Originariamente previste per febbraio 2022, le elezioni presidenziali sono state spostate dalle autorità di transizione del Mali, a fine dicembre 2025, portando così la durata della transizione ad un totale di cinque anni e mezzo.
La situazione, quindi, non è ancora normalizzata. Pertanto, il governo di transizione maliano, evidentemente non sentendosi sicuro, si è rivolto ai russi. L’alto diplomatico Pyotr Ilichev, direttore del dipartimento delle organizzazioni internazionali del Ministero degli Esteri russo, il 27 dicembre 2021, in un’intervista rilasciata all’agenzia di stampa RIA Novosti, ha detto: “Continueremo a fornire assistenza attiva ai nostri partner del Mali nelle sfere militare e tecnico-militare”. E, riguardo alla scelta francese dii dimezzare le truppe, ha aggiunto: “In queste condizioni, il Mali, con altre regioni del Sahara-Sahel, ha tutto il diritto di cooperare con qualsiasi partner per combattere gli estremisti (…). Riteniamo che la lotta al terrorismo internazionale in Africa sia un compito che accomuna tutti gli attori non regionali”. Infine, non va sottovalutata la presenza nell’area saheliana di membri dell’intelligence dei vari paesi nominati, e di contractor”.
CONCLUSIONI
In conclusione, possiamo dire che i padroni della terra africana sono tanti, soprattutto stranieri, sempre meno sono gli africani ad essere padroni a casa loro. Per quanto attiene al Sahel, è ancora più evidente. Il territorio – come abbiamo spiegato – è nelle mani di organizzazioni criminali e jihādiste, le cui razzie costringono le popolazioni locali a continui spostamenti. Il terrorismo non si combatte solo con le armi. La radicalizzazione è favorita dalla mancanza di sviluppo economico e sociale. Secondo alcune stime, soltanto nel Sahel fino a 40 milioni di giovani al di sotto dei 25 anni sono un fertile bacino di
arruolamento. Pensare di poter risolvere tutti i problemi con gli eserciti e con i droni è un errore tattico. La storia lo ha dimostrato. Occorre combattere la corruzione, che ormai è endemica, e la “maledizione delle risorse”. Uranio, petrolio, oro, sale, calcari, granito, gas naturale, stagno, bauxite, ferro: tutto questo è all’origine della crescente militarizzazione dell’area. «Tutti gli eserciti del mondo non serviranno ad arginare il sodalizio terrorismo-criminalità, se non si promuove lo sviluppo. Vanno implementati progetti di cooperazione ai fini dell’istruzione, l’accesso all’acqua, il miglioramento della sanità, l’adattamento ai cambiamenti climatici, la creazione di posti di lavoro. Ma, per fare questo, servono governi all’altezza. Dove non c’è giustizia sociale, non ci sarà mai pace», ricorda padre Armanino.
© 2022 Romina Gobbo pubblicato sul dossier dedicato all'accaparramento delle terre di Focsiv - giovedì 26 agosto 2022 https://www.focsiv.it/laccaparramento-di-terre-delle-organizzazioni-terroristiche-in-sahel/