Nella guerra all’Ucraina non sottovalutiamo il fattore religioso

Nell’aggressione della Russia all’Ucraina, c’è un aspetto che viene sottovalutato, ed è quello religioso. I media si limitano a rilanciare le “perle di saggezza” del patriarca russo Cirillo I Kirill: la guerra come lotta contro i modelli di vita occidentali, peccaminosi, come il gay pride, e la morte in battaglia come porta per il paradiso. In realtà, Kirill, diventato patriarca nel 1991, abbracciò l’ideologia del cosiddetto “Russkii mir” (letteralmente: Mondo russo), secondo la quale esiste una civiltà russa transnazionale, chiamata “Santa Russia”, che include, oltre alla Russia, l’Ucraina e la Bielorussia, e che deve fronteggiare un Occidente ritenuto il nemico conclamato dei veri valori religiosi. Già da questo, ci rendiamo conto che la questione è davvero complessa. «La guerra è stata una mossa politica, ma anche religiosa»: non ha dubbi don Sergio Mercanzin, profondo conoscitore di entrambi i Paesi, per aver fondato, nel 1976 a Roma, il Centro Russia Ecumenica, con l’obiettivo di aiutare i profughi scappati dall’Est, e far conoscere la situazione dei cristiani in quei Paesi. Oggia Russia Ecumenica si pone come un ponte fra Oriente e Occidente, fra credenti dell’Est e credenti dell’Ovest. «Nell’Ortodossia la relazione fra trono e altare è chiamata “sinfonia”. Il più delle volte, invece, è una “distonia”, perché è il potere politico che ha il sopravvento e sfrutta la Chiesa a suo vantaggio. Con la scissione dal Patriarcato di Mosca di parte della Chiesa ortodosso ucraina, la Chiesa ortodossa russa sta perdendo la maggior parte delle proprie parrocchie (15 milioni di fedeli), dei monasteri, degli immobili, delle offerte e anche delle vocazioni. Kirill, che ha il titolo di patriarca di Mosca e di tutte le Russie, oggi si ritrova a capo di una Chiesa ortodossa russa quasi dimezzata, e isolato da quasi tutti i leader religiosi del mondo».

In Ucraina, la Chiesa ortodossa era divisa in tre segmenti: il più numeroso dipendente da Mosca, la longa manus del Cremlino in terra oggi nemica; la Chiesa ucraina di Kiev, fondata dal metropolita Filarete, che però è autocefala, cioè si amministra in modo indipendente e autonomo, ma non riconosciuta come tale dalle altre; la Chiesa delle catacombe dell’epoca sovietica. Quest’ultima, “dura e pura”, non ha mai voluto contatti con le autorità statali, e oggi non esiste più, i suoi aderenti sono confluiti negli altri due segmenti. Nel 2018, l’autocefalia della Chiesa ortodossa di Kiev, promossa da Filarete, ma sostenuta in chiave nazionalista dal presidente ucraino Petro Poroshenko, è stata riconosciuta dal Patriarca ecumenico Bartolomeo di Costantinopoli. Egli ha revocato il vincolo giuridico della lettera sinodale del 1686 che concedeva al patriarca di Mosca la nomina del metropolita di Kiev. Per la Chiesa di Mosca si è trattato di un abuso di potere: “Bartolomeo si è arrogato il diritto di riconoscere l’autonomia delle Chiese. Magari vuole essere considerato il Papa degli ortodossi”. Così, Kirill e Bartolomeo si sono quasi scomunicati l’un l’altro, e la tensione continua. Oggi Kirill ritiene che il conflitto in corso serva a “trasformare mentalmente gli ucraini e i russi che vivono in Ucraina, in nemici della Russia. Si tratta dello stesso obiettivo – secondo lui – che aveva lo ‘scisma’ creato da Bartolomeo nel 2018”.

In realtà, dopo l’anno Mille, la Chiesa ortodossa tende ad attribuire l’autocefalia ad ogni propria Chiesa, nata in seno ad una nazione, per cui quella ucraina è una scelta che si inserisce in un filone esistente. La situazione attuale in Ucraina vede due Chiese ortodosse, quella che dipende dal Patriarcato di Costantinopoli, retta dal metropolita Epifanio I, e che considera Bartolomeo come proprio capo spirituale, e quella che continua a dipendere da Mosca, retta dal metropolita Onuphry, ma che perde continuamente pezzi, perché molti fedeli, non condividendo la guerra, si sono rivolti a Costantinopoli (più di 200 comunità). In Ucraina c’è anche una Chiesa greco-cattolica, guidata dall’arcivescovo Svjatoslav Ševčuk, che riconosce l’autorità suprema del Papa, ma che continua ad usare il rito della Chiesa ortodossa. Sono circa sei milioni di fedeli, sono i più nazionalisti, anche se dipendono “spiritualmente” da Roma. Gli ortodossi, con un termine dispregiativo, li chiamano uniati (sono detti così i cristiani che, dopo la separazione conseguente allo scisma d’Oriente, sono ritornati all’unione con Roma, ndr).

Per riassumere, le tre Chiese presenti in Ucraina hanno lo stesso rito e la stessa ecclesiologia, ma hanno riferimenti diversi. Nessuna è autocefala autonoma, ciascuna dipende sempre da qualcuno di esterno. La domanda che rimane nell’aria è: perché l’Ucraina non ha diritto ad avere un proprio Patriarcato? In modo da essere totalmente autonoma? Qualche voce si è levata a dire che questo potrebbe essere il momento propizio per un Patriarcato ortodosso ucraino unico. Una nuova entità a cui potrebbe avvicinarsi anche la comunità greco-cattolica. L’Ucraina diventerebbe così una sorta di “laboratorio ecumenico avanzato”, con punti di riferimento Costantinopoli e la Santa Sede.

Che succede invece in Russia? Il Patriarcato di Mosca, nato nel 1589, è il più numeroso fra le Chiese ortodosse. Vanta 80 milioni di fedeli, di cui 15 milioni circa di praticanti. D’altra parte, gli ortodossi non hanno l’obbligo della messa domenicale. Il battesimo è molto diffuso; sentono molto più la Pasqua del Natale. Per quanto riguarda, invece, i cattolici in Russia, va detto che l’arcidiocesi della Madre di Dio a Mosca, retta dall’arcivescovo metropolita italiano monsignor Paolo Pezzi, è grande sette volte l’Italia; si estende su un territorio di due milioni e 700mila kmq, con una popolazione di circa 56 milioni di abitanti. I cattolici battezzati sono stimati in 180.000, dei quali 20.000 praticanti, e 70.000 che hanno un contatto saltuario con la Chiesa. I sacerdoti sono tra i 120 e i 130, dei quali 30 incardinati nell’arcidiocesi, un’altra trentina provenienti dall’estero (Polonia, Slovacchia, Spagna, Italia, Germania, ma anche Nigeria e Congo), 60 preti religiosi, 10 tra presbiteri armeni e greco-cattolici. Si tratta di un ambiente esteso e frastagliato, dove vive un “gregge” piccolo, con una grande dismogeneità di radici e culturale, anche fra i preti.

Il 12 febbraio 2016 a Cuba ci fu un incontro fra papa Francesco e il patriarca Kirill. Quest’ultimo annunciava che le due Chiese avrebbero lavorato insieme, ma la storia è andata in un’altra direzione. All’inizio della guerra, lo scorso febbraio, il Santo Padre, che invece, non solo si negò ma, in un’intervista rilasciata al Corriere della Sera, bollò Kirill come “il chierichetto di Putin”. «Per quanto riguarda Kirill – riprende don Mercanzin -, all’inizio ha voluto nobilitare la guerra, ponendola come una crociata. Oggi sembra un imam musulmano che promette il paradiso a chi muore in battaglia. Secondo me, se ci sarà la pace, sarà spazzato via, perché la sua presenza è ormai troppo ingombrante. In Russia il Santo Sinodo, formato da tutti i vescovi della Chiesa ortodossa, conta più del patriarca. Lui è un capo assoluto e a vita, ma con una spada di Damocle sulla testa, infatti può essere esautorato. Risanare le fratture tra le Chiese ortodosse non sarà facile. L’eroe positivo in tutto questo resta papa Francesco, che ha fatto di tutto per promuovere la pace, denunciando ripetutamente le lobby delle armi. Il presidente francese Emmanuel Macron gli ha chiesto di farsi mediatore fra i presidenti degli Stati Uniti e della Russia, Joe Biden e Vladimir Putin. Bergoglio ha dato un assenso di massima. Vedremo dove questo porterà.

© 2022 Romina Gobbo 

pubblicato sulla rivista trimestrale Shalom - numero 91 - dicembre 2022 - pagg. 15, 16, 17
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