«I nostri piccoli? Solo dall’Africa, scelta educativa»

«Abbiamo sempre pensato che il colore della pelle sia una caratteristica puramente casuale, dipende solo dal posto in cui siamo nati. L’amore che ci ha legato ai nostri figli (fin da quando erano solo un desiderio), è sempre stato indipendente dalle loro origini. Un sentimento talmente profondo, sincero e unico, che non saprei spiegare a parole». Eva Passaro e Alessandro Sivori, due bambini del Burkina Faso adottati e in attesa dell’arrivo di un ragazzino in affido, hanno compreso appieno lo spirito che caratterizza il Movimento Shalom, la onlus toscana nata nel 1974 per volontà di don Andrea Pio Cristiani, e che viene sintetizzato dalle parole del presidente Vieri Martini: «L’adozione internazionale si fa per dare una famiglia ai bambini, non per dare un figlio ai genitori che ne sentono il bisogno». Ma non tutte le coppie sono pronte ad un’accoglienza così aperta e disinteressata. «L’adozione internazionale negli ultimi dieci anni ha avuto un calo consistente – dice Martini -. Le cause sono varie, ma una di
queste è sicuramente anche il senso di razzismo diffuso che si respira in Italia. Magari non come causa diretta, però c’è a volte questa preoccupazione nelle coppie che decidono di fare questa scelta di vita. Così alcune preferiscono rivolgersi a Paesi del Sud America o dell’Est Europa».

Shalom, invece, è in controtendenza, perché la scelta di fare adozioni solo di bambini africani ha una motivazione precisa. «Un bambino bianco può essere visto nel tempo come un bambino biologico. Passano gli anni, nella cerchia esterna, parentale, amicale, nessuno più si ricorda che è stato adottato. Ovviamente, questo non è possibile con il bambino di colore. Noi vogliamo che l’adozione internazionale non sia una maschera, che non si debba nascondere che c’è stata un’adozione. Perché si tratta di una ricchezza per la famiglia e per la nostra società». Dal 2001 sono entrati in Italia con Shalom 168 bambini, di cui 122 dal Burkina Faso. Al 2016, 33 bambini provenivano dalla Repubblica Democratica del Congo, e 23 dal Kenya. Questi due Paesi hanno poi chiuso alle adozioni internazionali.
«Ha aperto invece, il Congo Brazzaville, che sarà la nostra prossima sfida – spiega Barbara Guerrucci, responsabile Shalom per le procedure di azione internazionale -. Noi facciamo adozioni soltanto nei Paesi dove abbiamo progetti di cooperazione internazionale in corso – Questa è stata fin dall’inizio la volontà del nostro fondatore, don Andrea. Il quale è stato un precursore dei tempi, perché la Convenzione dell’Aja (29 maggio 1993) sulla protezione dei minori e sulla cooperazione in materia di adozione internazionale, sottolinea che l’adozione dev’essere sussidiaria. Significa che va fatta quando non ci sia più alcuna possibilità per il minore. E, che, l’Ente che se ne occupa, deve anche attuare progetti che aiutino lo sviluppo del Paese in questione, in particolare rivolti ai bambini. Noi oggi lavoriamo principalmente in Burkina Faso dove, nonostante la situazione di instabilità dovuta agli attacchi terroristici, lo Stato non ha mai sospeso le adozioni internazionali. E, dal punto di vista organizzativo, burocratico, logistico, è ineccepibile. In un anno e mezzo, il bambino arriva
in Italia con tutti i documenti in regola, e con la sicurezza che si trovava davvero in stato di abbandono. Non ha cioè parenti che ne possano rivendicare la patria potestà. Questa è una garanzia per la coppia che adotta. Il costo della procedura si aggira sui 15mila euro, perché l’adozione non è un privilegio, è un diritto di tutti».

L’accompagnamento delle coppie è la parte più importante. I genitori devono sapere che il loro figlio è portatore di una cultura altra, che sarà inserito in una società ben diversa da quella nella quale è cresciuto. «Rendere consapevoli anche delle difficoltà aiuta le coppie a non trovarsi impreparate – conclude il presidente Vieri -. E, in effetti, i fallimenti adottivi con Shalom sono meno delle dita di una mano. Invece, sono tante le coppie che hanno fatto anche una seconda adozione».

Come Eva e Alessandro. «“Chissà a chi assomiglio. Questi occhi da chi li ho presi? Mamma, so che non sono nato dalla tua pancia”. Nei ragazzi adottati resta sempre un “buco nero”, il grande tormento è il perché dell’abbandono – dice Eva -. Noi abbiamo sempre cercato di far capire loro che devono avere rispetto per le loro origini e per la loro mamma biologica che, se ha agito così è perché non aveva scelta e, così facendo, ha permesso loro di avere una vita bella. Io e mio marito ci siamo sposati nel 2004. Avevo 26 anni. Constatato che i figli non arrivavano, abbiamo deciso di adottare. Aziz, oggi 13 anni, è arrivato a dicembre 2013, Raphael, 11 anni, a marzo 2019. Il più grande è sempre stato inquieto per il fatto di essere stato adottato. Quando, poi, è arrivato Raphael, ha capito di essere stato fortunato. La cosa bella è che, pur non avendo legami di parentela, si sono subito riconosciuti fratelli. È la storia simile, dolorosa, che li ha resi tali. E questo è straordinario. Io e mio marito ci diciamo sempre che siamo stati davvero fortunati ad incontrarci, soprattutto noi ad incontrare loro, perché ci hanno cambiato la vita».

© 2023 Romina Gobbo 

pubblicato su Avvenire - domenica 5 febbraio 2023 - pag. 3
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