Uganda. Il Comboni Samaritans

Da quando è in Uganda, suor Giovanna si occupa dei più vulnerabili, soprattutto al centro polifunzionale Comboni Samaritans, costruito grazie alla cooperazione. A 78 anni, la religiosa si trova ad affrontare una nuova sfida.
«Pensavo di aver fatto il possibile nella vita. Non avevo mai lavorato con gli adolescenti. Ma il Signore mi ha fatto questo dono. Le persone scartate, che non valgono niente, per noi sono preziose, perché sono preziose per il Signore». C’è un’altra pessima pagina nella storia ugandese, quella della guerriglia perpetrata dai ribelli del Lord’s Resistance Army (o LRA), al comando di Joseph Kony. Affermando di essere un medium, sviluppò un’ideologia religiosa sincretica pseudo-cristiana, in nome della quale commise le peggiori atrocità contro i civili, tra cui omicidi, mutilazioni, stupri e in alcuni casi anche cannibalismo. Nel 2005, Kony fu incriminato per crimini di guerra dalla Corte penale internazionale dell’Aja, Paesi Bassi, ma riuscì ad evitare la cattura e a dileguarsi. Secondo le statistiche governative, trentamila ragazzini e ragazzine furono rapiti, torturati e drogati, al fine di renderli docili, pronti a combattere e a qualsiasi violenza. L’orrore è finito nel 2008, ma venticinque anni di LRA hanno lasciato conseguenze devastanti.
«Non c’è una famiglia nel nord dell’Uganda che non abbia avuto un figlio rapito – dice suor Giovanna -. Pochissimi sono ritornati, la maggior parte sono morti. Chi è ritornato porta ferite fisiche e psichiche che non potranno mai essere sanate. Molte bimbe allora rapite, oggi donne, sono tornate incinte, e per questo sono state ripudiate dalle famiglie. Hanno problemi fisici e psichici, disabilità dovute alle torture. Ne aiutiamo una cinquantina. Anche se sono passati dieci, quindici anni dal loro rientro, la ferita non si rimargina. I loro figli sono figli di nessuno, i padri non esistono, i ragazzi finiscono sulla strada; rappresentano la nuova vulnerabilità a cui qui al Comboni Samaritans cerchiamo di dare risposte».

Molte di queste donne sono affette da Hiv, che in Uganda è ancora ben presente. «Esplose nel 1984 – riprende suor Giovanna -. Non c’erano cure, chi veniva infettato, moriva. E poi c’era lo stigma connesso alla malattia: i malati venivano emarginati. Per la popolazione, si trattava di una maledizione. Oggi, la presenza dei farmaci antiretrovirali ha migliorato le cose e diminuito la paura. Ma non è finita. Molti di questi ragazzi di strada sono orfani, figli di genitori morti di Aids, e a volte positivi pure loro. A causa della malattia, le famiglie pensano che non valga la pena investire sulla loro educazione, tanto sono destinati a morire. Allora ce ne facciamo carico noi. Nelle nostre scuole sono accolti 1.000 di questi bambini». Prima l’istruzione, poi la formazione professionale con le scuole tecniche: falegnameria, parrucchiera, sartoria, cucina. Ci sono progetti di microcredito, un dispensario, e i laboratori per le donne: telai, perline, presepi, borsette, quaderni, magliette, sciarpe, berretti… Alla base di tutto c’è l’ascolto. «Parliamo con i ragazzi, ci facciamo raccontare la loro storia. Molti hanno il desiderio di cambiare, ma spesso non ce la fanno. Perché assumono droghe e perché nel gruppo si sentono forti. Provano a uscirne e poi ritornano per strada. La presenza di queste “baby gang” ha reso pericoloso per la gente comune uscire dopo l’imbrunire. Le ragazze si prestano per la prostituzione e fanno da palo. I ragazzi rubano e rivendono. Ma chi compra? Noi adulti. Chi vende la droga? Noi adulti. Siamo andati dal sindaco e abbiamo detto: “Uniamoci, bisogna fare assolutamente qualcosa. Questi ragazzi non sono criminali, hanno solo bisogno di affetto”». Affetto che non ricevono dalle famiglie, perché spesso non ci sono e, quando ci sono, non sono in grado di occuparsi di un figlio problematico.

«Un papà una volta mi ha detto: “Mi aspetto solo che lo portino qui morto, così è finita per davvero” – conclude suor Giovanna -. Per dire quanta disperazione. Dallo scorso aprile, ne abbiamo aiutati 200, ma le statistiche governative parlano di 2.000 ragazzi per strada solo nella città di Gulu». Quando li incontriamo, ci rendiamo conto che non sono proprio adolescenti, sono uomini tra i 27 e i 30 anni, per strada anche da dieci, quindici anni, e magari con anni di prigione alle spalle. «”Sei un uomo e dovresti prenderti cura di te”, dico loro, cerco di spronarli, ma non li rigetto mai. Non possiamo fare granché, spero solo che nei momenti più duri della loro vita, si ricordino che qualcuno ha cercato di aiutarli». Sono cinque le comboniane impegnate al Comboni Samaritains, la più giovane ha settant’anni. Oltre a Giovanna Calabria, originaria di Verona, ci sono suor Claudia Piffer, di Lavis (Trento), suor Virginia Chirico, di Brugherio (Monza e Brianza), suor Lucia Comberlato, di Vicenza. Assieme a loro, c’è l’ugandese suor Anastasia, 29 anni, che però a breve partirà per la missione in Brasile.

Sono lontani i tempi in cui le comboniane in Uganda erano oltre 250, di cui un’ottantina a Gulu. Ma oggi possono contare sull’aiuto dei mentor Martin Nyeko e Scovia Akello, assunti full time, del direttore della struttura, Massimo Opiyo, e di altro personale.

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UGANDA, GULU. SUOR GIOVANNA CALABRIA AI “SUOI” RAGAZZI:

«Il mio non è amore che scusa, ma amore che corregge»
«Il Signore mi ha mandato per essere una sua presenza di consolazione, e perché io possa dire ogni giorno ai ragazzi che incontro: “Sono con te, vai avanti, ricomincia”. Stando qui imparo sempre di più ad avere pazienza e amore. Non amore che scusa, amore che corregge». La comboniana suor Giovanna Calabria, nipote di san Giovanni Calabria, si trova a Gulu, nel nord dell’Uganda dal 1971. Con oltre 200mila abitanti, Gulu è la seconda città più popolosa di un Paese che all’aeroporto ti accoglie con la scritta “Uganda, perla d’Africa”, perché così lo definì Wiston Churchill. Ma oggi la realtà è che circa il 65% degli ugandesi vive con meno di due dollari al giorno.
Quando le comboniane arrivarono negli anni ’70, il Paese era in guerra. Con un colpo di stato, nel 1971, Idi Amin Dada Oumee, prese il potere. Rimase presidente fino al 1979, governando col pugno di ferro e con la violenza. Perseguì molti gruppi etnici, tra cui gli Acholi, i Lango, gli Indiani, inclusi quelli di religione induista e cristiana. Una stima dell’International Commission of Jurists ha ipotizzato che le vittime della sua repressione siano state almeno 80mila. Fu un periodo sanguinario. «La caserma principale era proprio vicino a noi e di notte sentivamo gli spari – racconta suor Giovanna -. I militari cercavano sempre automobili, benzina e soldi. Arrestavano persone arbitrariamente, chi non forniva loro quello che chiedevano, veniva ucciso. I soldati erano sempre in giro a controllare, così molte persone venivano da noi in cerca di un rifugio. Nello scantinato abbiamo nascosto tanti padri comboniani». Nel 1978 Amin ordinò l’invasione della Tanzania, ma quest’ultima iniziò un contrattacco a cui parteciparono anche gli esiliati ugandesi. «Ancora vittime, ancora paura. La sera non potevamo neppure accendere la luce. Saremmo diventate un bersaglio. Ma non abbiamo mai pensato neppure per un istante di andarcene». L’anno successivo l’era Amin termina.

© 2023 Romina Gobbo 

pubblicato su https://www.comboniane.org/il-comboni-samaritans/ - 22 febbraio 2023 

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