La marcia infinita dell’olimpico Abdon Pamich

«Ha vinto il fiumano, scrivevano i giornali. E io ne andavo fiero, perché così si teneva vivo il ricordo di una città che non c’è più». Ha gli occhi malinconici di chi è vissuto sempre sul confine tra il ricordo amaro della perdita della propria terra e la felicità per i risultati raggiunti. Abdon Pamich, per gli appassionati della marcia, è un mito: cinque partecipazioni olimpiche coronate dall’oro di Tokyo 1964 e dal bronzo di Roma 1960, due titoli europei e tre ori ai Giochi del Mediterraneo, più quaranta titoli italiani e vari record. Lo abbiamo incontrato al ristorante “Perché” di Roncade (Treviso), il 25 febbraio, nell’ambito di una giornata dedicata ai miti dello sport giuliano dalmata, organizzata dall’Anvgd (Associazione nazionale Venezia Giulia e Dalmazia), presenti Italia Giacca, presidente onorario della sezione Veneto, e Alessandro Cuk, vicepresidente nazionale. La serata è stata coordinata dal giornalista padovano Renato Malaman, appassionato di storia istriana.

Ma chi pensa che la marcia fosse il sogno di ragazzo di Abdon, resterà deluso. «Volevo fare il capitano di lungo corso, oppure il nuotatore. Per me che sono nato a Fiume, città del Quarnaro incastonata tra Istria e Dalmazia, la carriera in mare era qualcosa di naturale. Ma avevo cominciato ad adocchiare anche il pugilato, perché mio zio aveva una palestra di boxe. In Istria la cultura sportiva era diffusa. Molti sono diventati campioni: fra essi, il pilota Mario Andretti e il pugile Nino Benvenuti. Ma gli eventi del 1947 mi hanno cambiato la vita. Ancora oggi, a novant’anni, mi chiedo che cosa sarei diventato se non fossi scappato. Se fosse stata una Jugoslavia democratica, saremmo rimasti, ma il “proletario” Tito era il volto del terrore». A undici anni, assieme al fratello Giovanni, fugge dalla terra natia diventata Jugoslavia. La fuga è di quelle rocambolesche: in pantaloncini corti e maglietta, sfidando il freddo del Carso, sbagliando treno, braccati dalla polizia slava. Se non fosse cruda realtà, sarebbe un romanzo. Ma un romanzo triste, perché, arrivati in Italia, ai fratelli Pamich tocca la vita degli esuli, fatta di campi profughi, del disprezzo di chi li considerava fascisti, dell’ostilità di chi li considerava stranieri. Solo due anni dopo la famiglia – mamma, papà e figli – può riunirsi a Genova.

La vita segue percorsi a noi sconosciuti, e Abdon si trova per caso “a calpestare l’asfalto”, ma poi «la passione è diventata quasi una dipendenza». A credere in lui è Giuseppe Malaspina, il tecnico che gli è stato accanto per oltre vent’anni. «Una volta non c’era letteratura sportiva, gli allenatori erano improvvisati, avevano solo l’esperienza. Giuseppe, invece, era bravo, era uno psicologo ante litteram. Sono laureato in psicologia e sociologia, ma ho imparato molto di più da ciò che mi ha insegnato lui». La carriera è stata costellata di tante vittorie, ma anche di qualche rammarico. «Non posso dire di aver avuto grandi sconfitte, perché non mi esaltavo nella vittoria e non mi deprimevo nella sconfitta. Ha maggiori probabilità di vincere chi non ha paura di perdere. Vado spesso nelle scuole a raccontare la mia storia, perché collaboro con la Società di studi fiumani di Roma. Ai ragazzi dico che lo sport dev’essere una gioia, un piacere poi, se i risultati vengono, meglio. E l’importante è essere puliti. Mi è capitato tante volte di gareggiare con i “professionisti” delle ex Repubbliche Sovietiche. Erano sfide impari perché loro erano dopati, mentre io non ho mai preso neppure un integratore. Oggi tanti di loro sono morti, alcuni sono “scassati”, di sicuro nessuno di loro è arrivato alla mia età».

In questo lungo percorso di 120mila chilometri, tre volte il giro della terra a passo di marcia, un ruolo importante l’ha avuto la moglie Maura Grisanti, mancata nel 2020. «Se la famiglia non ti appoggia, non fai niente. Mia moglie è sempre stata la colonna portante. Ci siamo sposati il 30 giugno 1957, alle 6.30 del mattino, con il sacrestano indispettito per l’orario. Spesso la sera, Maura veniva al campo per cronometrarmi i tempi. E, anche se in gravidanza, durante una 100 chilometri, mi seguì in Vespa per tutto il percorso. Io, tra gare e allenamenti, ero sempre via e, quando non gareggiavo, lavoravo alla Esso. È solo merito suo se ho due figli in gamba: Tamara, medico sportivo, e Sennen, amministratore delegato di un’azienda americana, che mi ha dato due nipoti». Sono trascorsi sessant’anni dalla sua vittoria a Tokyo, quando lei divenne una leggenda, citato persino da Paolo VI all’Angelus, come si sente? «Sembra ieri, ma sono passati tanti anni. Quell’Olimpiade è ormai preistoria. Ho un po’ di nostalgia ma sono sereno, perché ho smesso quando ho perso la motivazione». Gioca molto sulla sua età Abdon, e anche sulla sua timidezza, che rimane tale anche oggi. «Ai giornalisti non sono mai stato tanto simpatico, perché non sono mai stato un personaggio. Oggi, anche se sei forte, ma non sei un personaggio, non sei nessuno». Alla vita Abdon, che porta il nome di un martire cristiano di origini persiane, chiede ancora qualche anno per poter tornare ancora una volta nei luoghi natii, percorrendo le strade che da ragazzo lo hanno visto felice. E intanto cammina. «Continuo, ma da un anno all’altro cambia tutto. Un anno prima camminavo a 8 all’ora, l’anno dopo a 5. Ma non mollo. Se mi fermo, finisco in sedia a rotelle».

© 2023 Romina Gobbo 

pubblicato su Avvenire - mercoledì 22 marzo 2023 - pag. 23


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