Dal dialogo tra il filosofo e il teologo scaturisce il vero significato della parola “agape”, tema del Festival Biblico 2024. Massimo Cacciari,
professore emerito di filosofia, e il cardinale José Tolentino de Mendonça, prefetto del Dicastero della Cultura e dell’educazione,
si sono confrontati lunedì a Vicenza nella basilica dei Santi Felice e Fortunato. L’evento, dal titolo “‘Appena in mano, come cosa d’altri’ (Cesar Vallejo). L’agape è davvero umano?” (moderazione di Alberto Guasco, interventi musicali a cura di Margherita Dalla Vecchia e il Teatro Armonico), traghetta la città verso il fine settimana clou del Festival, nato vent’anni fa da una felice intuizione della diocesi di Vicenza e della Società San Paolo.
Cacciari parte con il chiarire il significato della parola agape che affonda le sue radici nell’epoca classica. «Il termine agape indicava genericamente il trasporto sentimentale. Mentre per indicare un legame forte tra due soggetti, si usavano i termini eros e filia. Eros è la potenza
che rompe la tua identità, vuoi uscire da te per congiungerti all’altro e diventare uno con lui. Filia è l’amicizia; è possibile solo fra persone simili,
perché si tratta di un’affinità spirituale. Può essere intensissima, tanto da morire per un amico. Ma non posso essere amico di un dio. Non c’è amicizia tra uomini e dei nel mondo classico».
La tradizione teologica vede una risemantizzazione della parola agape. Ed è singolare che a spiegarla sia proprio il filosofo che si definisce
non credente. «Nel linguaggio evangelico, con agape si intende un amore che mi fa prossimo all’altro. È un amore totalmente gratuito, che mi porta ad accudire anche il nemico. Pensiamo al samaritano. È un impeto d’amore, che deriva da Dio. Dio è creatore nel senso che dona il suo essere alle creature. Se il mio amore è imitazione del Theòs agape, allora anch’io devo infondere il mio essere nell’altro. Un dono, il cui livello più alto è il perdono. Ma questa misura radicale di agape è sovrumana? Il Signore ci chiama a diventare sovrumani per essere uomini secondo la
misura dell’agape. Non ce la facciamo? Va bene. Ma è diverso se ci volgiamo a quel fine o se lo ignoriamo». «L’esperienza di fede è qualcosa
di così travolgente, che cambia anche il significato delle parole spiega il cardinale -. La Bibbia ha un dialogo vicino alla tradizione classica ma, allo
stesso tempo, è altro: un’altra esperienza di Dio e un’altra esperienza di cosa significhi essere umano. La filia mantiene il suo aspetto contenuto, di moderazione, di reciprocità, ma allo stesso tempo, è altro, se pensiamo che Mosè si rivolgeva a Dio come a un amico. In epoca classica sarebbe stato impossibile, ma l’esperienza della rivelazione ci fa andare oltre i limiti concettuali. Quando Gesù dice ai suoi discepoli, non vi chiamo
servi, ma amici, la parola amicizia guadagna nuove possibilità semantiche. Così la parola amore. Pensiamo al Cantico dei Cantici: lì l’esperienza
dell’eros diventa altro. I due amanti non si incontrano mai. La loro storia d’amore è la storia di un desiderio».
Poi il cardinale cita come «elogio all’amore» la prima Lettera ai Corinzi di san Paolo. Nel Nuovo Testamento la parola agape è nominata 120 volte, per due terzi da Paolo. «L’amore di cui parla – continua Tolentino – è spoliazione di sé, morire per sé stesso e donare la vita all’altro. Noi conosciamo Paolo come grande innovatore della storia umana, della tradizione occidentale, ma lui è fondamentalmente un mistico. Noi capiremo
appieno che cos’è agape nella misura in cui siamo disponibili a un’esperienza mistica». La disamina su che cos’è agape non è né filologica, né teorica, ha molto a che vedere con il qui e ora. «Il Signore non ti chiede di essere perfetto, ti chiede se sei su quella strada – riprende Cacciari -. Ma te lo chiede anche il filosofo. Io oggi ritengo che siamo sull’altra strada, non su un’altra, ma proprio sull’altra, quella opposta». E chi, invece,
percorre la strada giusta, è solo? «Dio è amore perché è comunione di persone. Dall’uno passa al due e anche al tre – risponde Tolentino -. Nello schema trinitario, si passa dalla solitudine all’esperienza di comunione, di comunità, della quale la Trinità Santissima è per noi il modello, l’aspirazione. Mi piace raccontare un aneddoto. A un’antropologa gli studenti chiedevano da quando si può parlare di civiltà. Si potrebbe
pensare a degli oggetti, antichi vasi, alle prime armi. Lei, invece, rispose che il primo segno di civiltà era una tibia rotta che aveva ritrovato, vecchia di migliaia di anni. Spiegò loro che questo stava a significare che in un gruppo umano una persona aveva avuto un incidente, e non era stata lasciata indietro. Da quando questa compassione guadagna una forma di espressione, allora possiamo parlare di civiltà. L’utopia della
Chiesa è diventare una rete di comunità agapiche dove le persone si amano a vicenda, con un amore disinteressato con, al centro, l’esperienza stessa dell’amore», ha concluso il cardinale.
© 2024 testo e foto di Romina Gobbo
pubblicato su Avvenire – Agorà – mercoledì 22 maggio 2024 – pag. 24


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